Ancora motovedette cedute dall’Italia, questa volta alla Tunisia, per fermare i migranti lungo la rotta del Mediterraneo. Mentre sono oltre 16mila le persone sbarcate dal 1 gennaio. Quella stessa Tunisia dalla deriva autoritaria di Kaïs Saïed dove mercoledì 17 aprile andrà in visita la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per la quarta volta in meno di un anno, accompagnata dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi e da Anna Maria Bernini, responsabile Università e Ricerca. Una collaborazione, quella tra Europa, Italia e Tunisia, proseguita nonostante dal febbraio 2023 il governo di Tunisi porti avanti una politica apertamente razzista, con repressioni e violenze ai danni delle persone migranti e parlando di sostituzione etnica.

Illegittimità

Ecco perché l’intesa e il decreto per la cessione di 6 motovedette alla Garde Nationale tunisina sono stati impugnati in via cautelare dalle associazioni Asgi, Arci, Actionaid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet. L’udienza al TAR Lazio è fissata per il prossimo 30 aprile. «L’accordo riproduce lo schema già attuato in Libia», spiegano le associazioni. Il finanziamento alla Guardia costiera tunisina - che per statuto non è un corpo di salvataggio ma di polizia - aumenterebbe il rischio di violazione dei diritti fondamentali e dell’obbligo di non refoulement delle persone migranti. «Riteniamo che gli atti con cui il governo ha stabilito la cessione delle motovedette violino la normativa nazionale, prima di tutto quella che stabilisce il divieto di finanziare e trasferire armamenti a paesi terzi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani», spiega Adelaide Massimi, coordinatrice Asgi del progetto Sciabaca&Oruka.

L’accordo

A dicembre 2023 il Viminale ha stanziato quasi 5 milioni di euro di fondi propri per la rimessa in efficienza e il trasferimento delle motovedette. Ma il trasferimento di materiale d’armamento è stato, notano le associazioni, deciso «senza alcun coinvolgimento» dei ministeri di Esteri e Difesa, né dei tanti organismi consultivi e di controllo stabiliti dalla legge per monitorare il movimento di materiali d’armamenti dentro e fuori l’Ue.

La guardia costiera tunisina poi «è responsabile di documentate violazioni dei diritti umani durante le violente intercettazioni in mare e dopo lo sbarco in Tunisia». Il paese è nella lista di quelli considerati sicuri dal governo italiano, ma numerosi tribunali hanno ritenuto negli ultimi tempi questa valutazione non più valida alla luce del deteriorarsi delle condizioni nel paese.

Da Human Rights Watch alle Nazioni Unite passando dall’Organizzazione mondiale contro la tortura, sono tante le denunce sui «metodi violenti di intervento in mare della Garde Nationale»: manovre pericolose per bloccare le imbarcazioni, che in alcune occasioni hanno provocato naufragi e persino la morte delle persone in mare, «l'uso di pistole e bastoni per minacciare le persone a bordo, il furto dei motori delle imbarcazioni che vengono poi lasciate alla deriva». E spesso le persone intercettate in mare e ricondotte a terra «sono state direttamente e illegalmente deportate verso le zone desertiche» a morire al confine con Libia e Algeria.

Il precedente libico

L’Italia e l’Europa non possono respingere le persone, né riportarle in paesi non sicuri dal punto di vista del diritto internazionale. Ma altri possono farlo. Le iniziative di esternalizzazione delle frontiere in Libia partono da lontano, dal governo Berlusconi che nel 2009 concorda la cessione di 6 unità navali della Guardia di finanza alla cosiddetta guardia costiera libica. Per «interrompere i flussi alla radice»'. Nel 2017 il Memorandum d’intesa col governo di accordo nazionale firmato da Serraj e Paolo Gentiloni a Roma e la consegna di altre 6 imbarcazioni. Nel 2018 il governo Conte I, col decreto motovedette, autorizza la cessione di altre 12 unità navali con l’obiettivo di «ridurre drasticamente i flussi di provenienza e di transito dalla Libia» per un totale di 2,5 milioni.

C’è anche la 658 Fezzan, protagonista dell’attacco armato alla nave italiana Mare Jonio lo scorso 4 aprile (e di un contestato intervento di Piantedosi in parlamento). Il JLProject, progetto di contrasto ai respingimenti in Libia cui partecipa Mediterranea Saving Humans, è in questi giorni alla ricerca dei profughi “catturati” dalla Fezzan quel giorno “per presentare azioni legali contro il loro respingimento”.

Entro il 2023 era prevista poi la consegna di 20 battelli, un appalto di 9,3 milioni. Il programma ‘Support to Integrated Border and Migration Management in Libya’ (IBM) del 2017 supporta anche il controllo delle frontiere libiche terrestri con 30 fuoristrada e 10 minibus. Nella primavera del ‘22 è stata aggiudicata la commessa per la fornitura di 14 navi veloci per un valore di 6,65 milioni.

Altre 5 motovedette vengono fornite alla Libia a gennaio 2023, in occasione della visita della premier Meloni. «Anche se le imbarcazioni vengono fornite senza armi, il loro scopo militare intrinseco le rende potenzialmente materiale bellico». E le navi fornite dagli stati europei vengono spesso armate dopo la consegna. Una di queste, la Nalut, il 16 marzo scorso sopraggiunge durante un’operazione di salvataggio della Geo Barents, la nave di Medici senza frontiere. «Hanno tentato di fermare i soccorsi e salire con la forza a bordo forza di una delle nostre imbarcazioni, minacciando lo staff Msf e i sopravvissuti. La Guardia costiera libica, finanziata dall'Ue, è quella che mette in pericolo la vita delle persone», dice Juan Matias Gil, rappresentante delle operazioni di ricerca e salvataggio di Msf.

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