Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, è in attesa che un tribunale del Regno Unito si esprima sulla richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti, dove è indagato per spionaggio e violazione dei sistemi informatici del governo. Il verdetto, appellabile, arriverà probabilmente dopo le elezioni presidenziali americane, e la decisione di Londra dirà se l’attività di Assange è considerata giornalismo oppure spionaggio.

Dieci anni di accuse

Da tempo Assange è protagonista di intrighi giudiziari. Il primo episodio risale al 2010, lo stesso frangente in cui Wikileaks diventa celebre nel mondo per le sue rivelazioni.

La Svezia accoglie le accuse di due donne per presunti abusi sessuali, lui si sposta a Londra, e Stoccolma chiede al Regno Unito l’estradizione. Viene quindi arrestato dalle forze dell’ordine inglesi e poi rilasciato su cauzione.

Quando nel 2012 capisce che non ci sono più i margini legali per evitare la Svezia, e temendo di essere estradato da lì agli Usa per l’attività di Wikileaks, vìola le condizioni del rilascio su cauzione e si rifugia nell’ambasciata dell’Ecuador, che gli dà asilo per sette anni. Nel 2015 la metà delle accuse dalla Svezia cade in prescrizione, nel 2017 le autorità svedesi chiudono l’inchiesta per «impossibilità di procedere».

Rimane però in sospeso il conto con le autorità britanniche per aver violato le condizioni della custodia, ed è sulla base di questo che l’11 aprile 2019 Assange viene arrestato: non appena l’Ecuador gli ritira l’asilo, le autorità britanniche lo portano dall’ambasciata al carcere. Solo dopo l’arresto, gli Usa rendono ufficiali i capi di imputazione nei confronti di Assange, nonostante l’indagine contro Wikileaks sia in corso oltreoceano dal 2010. Sulla testa del fondatore pende ora una richiesta di estradizione.

Ecco perché a Londra è in corso un processo: per stabilire se estradarlo o no.

(AP Photo/Kirsty Wigglesworth, File)

Processo a Wikileaks

Le accuse dagli Stati Uniti non si riferiscono all’intera attività di Wikileaks, che si è trasformata negli anni, ma a un frangente preciso, il 2010, l’anno in cui la piattaforma pubblicò i cablogrammi su Iraq e Afghanistan arrivati grazie a Chelsea Manning, ex militare che nel 2009 si trovava a Baghdad come analista di intelligence.

Quei materiali erano le prove di abusi, torture, stupri, uccisioni di civili da parte dell’esercito americano. La giustizia americana punta contro Assange diciassette capi di accusa basati sullo Espionage Act del 1917, che punisce gli atti di spionaggio: la tesi è che Assange non sia un giornalista, ma un hacker che si è procurato illegalmente e ha diffuso documenti riservati: una spia.

Rischia perciò fino a 175 anni di carcere in una prigione di massima sicurezza. Testate come il New York Times, organizzazioni umanitarie come Amnesty, artisti come Ai Weiwei prendono posizione per Assange in virtù di un argomento: quei documenti erano di interesse pubblico e punirne la pubblicazione significa creare i presupposti per limitare la libertà di informazione.

«Pubblicare materiale secretato che arriva da una fonte è qualcosa che i giornalisti fanno da sempre, lo abbiamo fatto pure noi con i Pentagon papers», ha scritto il New York Times in un editoriale. «Anche se le fonti possono aver agito illegalmente, bisogna pubblicare quel che succede a porte chiuse se è nell’interesse pubblico. Il primo emendamento tutela proprio questo: la possibilità di dare all’opinione pubblica la verità».

Giornalismo o spionaggio

Wikileaks nel 2010 ha fatto giornalismo? Su quella parte della storia pochi hanno dubbi. Il professor Charlie Beckett si occupa di media alla London School of Economics e dice che «pubblicare materiale di interesse pubblico è certamente una forma di giornalismo, valeva per il Watergate e vale per Assange».

Dieci anni fa, dice il filosofo Slavoj Zizek, «Wikileaks ha cambiato le regole del gioco, ci ha messi davanti a uno specchio e costretti a vedere chi siamo anche quando avremmo preferito ignorarlo: ha formato un nuovo spazio pubblico».

Senza quell’esperienza, che ha sfruttato la tecnologia per fornire accesso diretto ai documenti, non sarebbero nate altre piattaforme che hanno poi animato il giornalismo investigativo, come GlobaLeaks. Gli Offshore Leaks (1,64 giga di dati) e i Panama Papers (2,6 tera), scandagliati dal consorzio internazionale Icij per portare a galla corruzione ed evasione globali, sono esempi di come i leak abbiano trasformato il giornalismo.

L’intellettuale Evgeny Morozov dice: «Wikileaks fornisce l’infrastruttura sulla quale lavorano i giornalisti. Dovremmo difendere un opinionista che scrive senza portare fatti, e non batterci per chi fornisce quei fatti?». Philip Di Salvo, autore di “Leaks. Whistleblowing e hacking nell’età senza segreti” (Luiss University Press, 2019), definisce gli esordi di Wikileaks come «il big bang mainstream del datajournalism». Ammette poi che esiste una «zona grigia in cui quella realtà ha peccato di poca trasparenza».

Ma quel punto riguarda la svolta del 2016, quando Wikileaks entrò nelle presidenziali Usa coi leak sul partito democratico. Le investigazioni statunitensi hanno concluso che a fornire le mail dem ad Assange fu l’hacker Guccifer 2.0, identificato come emanazione dei servizi russi.

Rimane da accertare se Assange fosse a conoscenza dell’identità di chi gli forniva il materiale, ma gli aspetti ambigui non si fermano qui. Persino Edward Snowden ha condannato in quel caso la pubblicazione, assieme ai documenti “politici”, pure di dati sensibili di cittadini: «Wikileaks ha dato un grande contributo alla democrazia dell’informazione, ma l’ostilità a moderare i contenuti è un errore». Questa però è un’altra storia.

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