Ogni domenica, a una certa ora, don Roberto era costretto a cercarli nei campi. Loro arrampicati sin dove possibile, ancora a staccare mandarini dagli alberi. Scendi, scendi, sciagurato, dobbiamo andare a giocare. Gridava come un pazzo, il don.
A volte riuscendo ad afferrare un piede, facendo poi su e giù come se quella caviglia fosse la corda di una campana. Alle 14 iniziava la partita e quelli all’una a scollare frutta pur di riempire altre cassette, guadagnare qualcosa in più. Aspetta, scendo, solo un minuto, faceva Yaya.

«Perché mica poi il pallone ci ripagava la giornata», dice, accompagnandoci per Rosarno e San Ferdinando.
Come fanno invece i padroni degli agrumeti nella Piana di Gioia Tauro: una cassetta di mandarini due euro, uno invece per le arance, e se non fai le cassette per una giornata di lavoro te ne danno cinquanta. Oggi. Un decennio fa per otto o nove ore di fatica spesso non ne racimolavi 30.

Yaya Diallo, 28 anni, nato in Costa d’Avorio ma vissuto in Mali, è stato il capitano della Koa Bosco. Era la squadra di soli immigrati africani nata nel 2012, a due anni dalla rivolta di Rosarno, quando il paese fu messo a ferro e fuoco e, prodigio, vennero qui a fare capolino la politica dei palazzi e delle ruspe, nonché i media di tutto il mondo. Salvo poi abbandonare nell’oblio ogni rogna. Come la squadra.

Il progetto 

Aveva fatto paura a tutte le altre avversarie di Terza e Seconda categoria prima che il suo fondatore e presidente, Roberto Meduri, fosse costretto a bucare la palla, nel 2017, a due passi dai play off per salire in Prima.
Un progetto semplice e geniale: il tesseramento alla Lega Nazionale Dilettanti restituiva a quei ragazzi la dignità perduta tra le onde del Mediterraneo e gli agrumeti, ma soprattutto fu il grimaldello per ottenere un permesso di soggiorno. Oltre alla meraviglia di giocare a calcio in un campionato italiano. Mancavano i soldi, però, e uno straccio di sponsor. Se non quelli di facciata. Anche grandi cooperative del nord, legate a quelle locali, sfruttarono il momento, il clamore, l’idea.

Peccato che gli affari li facevano tra di loro e con la scusa di assumere due o tre calciatori, alla stessa paga dei padroni della Piana, non strutturati come si deve. I mangioni solidali del posto si arricchivano così sulle spalle del progetto di don Roberto, e in tasca alla squadra giusto qualche bravo bravissimo.

«Dovevo far fronte io. Le trasferte, il panino, maglie, scarpe, calzini, pantaloncini, borse. Qualche negozio di articoli sportivi mi faceva metà prezzo. Per iscriverli al campionato mi aiutarono alcuni miei parenti di Torino», dice Meduri, uscendo dalla sua vecchia Colt senza più la “t” finale nella scritta a rilievo posteriore.

Un’automobile fracassata in anni di andirivieni e di carichi tra la parrocchia e la tendopoli. «Come si mettevano tutti qua dentro? Uno sull’altro. Quando eravamo fortunati prendevamo un furgoncino senza sedili. Ma andavamo a giocare contenti», fa, i piedi nudi infilati nei sandali, col freddo e il vento che pungono già.

Mettevano il cuore dentro le scarpe, quei ragazzi, e quel pallone davvero sembrava stregato. A maggio del 2015 il passaggio in seconda categoria. Due reti a una nei play-off a Maropati, che sembrò precipitare al V secolo, quando nella zona imperversarono guerre, terremoti, invasioni saracene. Segnò Almani, raddoppiò Mbaye: fu l’apoteosi. La prima volta che una squadra composta da africani vinceva un campionato in Italia.

La storia

Quando ci pensa, Yaya ancora non ci crede. Lo soprannominiamo “io capitano”. Sorride. Non sa del film di Matteo Garrone, ora candidato ai Golden Globes, ma afferra perfettamente dopo un brevissimo chiarimento.
Il racconto del suo viaggio verso l’Europa non è un film, ma la realtà: «Avevo soltanto sedici anni, partimmo da Tunisi. Ci mettemmo sei giorni perché dopo un po’ che navigavamo il motore si ruppe. Riuscimmo ad arrivare a Lampedusa spinti dal vento. Durante il viaggio almeno cinquanta di noi morirono di sete e di fame, furono gettati in mare. Ero terrorizzato ma era l’unica cosa da fare venire in Italia, cercare un lavoro e aiutare la mia famiglia».
Yaya è cresciuto a Niéna, una cittadina rurale di quel Mali perennemente in fiamme e che finanche i caschi blu della missione di pace dell’Onu hanno lasciato in gran fretta, proprio poche settimane fa. Da queste terre i ragazzi come Yaya non fuggono per fare la bella vita. Ma non si aspettano certo di finire in trappola.

L’inferno è la tendopoli della zona industriale numero due di San Ferdinando. Sembra di tornare a Kakuma, il campo profughi più grande del mondo al confine tra Kenya e Sud Sudan. Pensavamo, allora, di aver visto tutto, la sintesi di tutti i torti. Invece la baraccopoli è un non luogo come quello, forse peggiore. Sorge alle spalle del grande stabilimento della Op Spagnolo, che produce e distribuisce agrumi. I miliardi, e lo zero, lì accanto, riflettiamo con don Roberto.

Intanto sono un migliaio i dannati che sopravvivono tra cani pieni di piaghe, dedali di rifiuti, fumi. Yaya entra nella moschea del villaggio, un grande tendone pieno di tappeti. «Prego per la pace nel mio paese, e per noi. Guarda dove dorme io capitano», dice, mostrandoci poi il suo container, in un altro campo messo su ad hoc nell’hinterland metafisico del paese.

Le case ci sono, ma non sono mai state consegnate. Il trucco è mantenere lo stato d’emergenza, altrimenti i soldi non arrivano. Sullo sfondo il degrado urbano di Rosarno, in una Piana consumata dalla ‘ndrangheta. «Gli stupratori del bello», commenta don Ennio Stamile, ex storico punto di riferimento di Libera e oggi presidente di UniRiMI, l’università della Ricerca, dell’Impegno e della Memoria a Limbadi, sacerdote più volte nel mirino delle cosche.

Il razzismo

Due anni fa vennero stanziati otto milioni di euro, dove sono finiti? «Hanno costruito per noi, ma ci lasciano nelle baracche. Perché?», si domanda Yaya.

Corre tutte le sere lungo il vialone, al buio. Spera in una rinascita della squadra. Ma nemmeno san Francesco, e don Roberto gli si avvicina molto, può fare miracoli da queste parti.
Dopo le tragedie nella tendopoli, tra il 2018 e il 2019 con gli incendi e i morti carbonizzati, al sito di contrada Carmine – costruito per i migranti, con tanto di pannelli fotovoltaici (mai consegnato, chiuso da dieci anni) – era venuto alla testa di un gruppo di ragazzi Mohammed Dumbia, attaccante del Koa Bosco, nel tentativo di occuparne i fabbricati.

Gente del posto formò dei picchetti, non ci fu nulla da fare. Mohammed era forte. «Ma gli piaceva troppo scherzare», ride Yaya, «al punto che a volte si trovava davanti alla porta, palleggiava e alla fine segnava col sedere». Cominciavano a stare sulle scatole. Il Koa Bosco non abbassò la saracinesca soltanto per via dei soldi.

Spesso dovevano pulire loro gli spogliatoi, quello del Koa e quello della squadra che li ospitava. Li lasciavano sporchi apposta. Mister fuori da ogni regola e grazia di Dio stazionavano dietro la porta: gli insulti razzisti al portiere erano la cosa più goliardica. Dopo i “famosi” incidenti di Mileto, con rissa nel finale di partita col Paravati, cominciò la caccia all’uomo.

Si appostavano nelle zone più buie e quando i ragazzi facevano rientro alla tendopoli davano il via ai pestaggi. «Uno dei nostri entrò in coma, oggi è disabile. La Lega Dilettanti non ci difendeva, decisi di fermare tutto», chiosa il don. Il sogno era cominciato con la selezione in un campetto di spine, sul terzo stradone, alla periferia di Rosarno. I ragazzi di mister Mimmo Mammoliti vincevano anche senza allenarsi.

La leva calcistica africana si svegliò da quel bel sogno a un passo dalla promozione in Prima categoria. Avrebbe fatto la storia. Non hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro, come canta De Gregori. Perché il muro non ce l’hanno, e neanche le scarpe. Nemmeno il bar dove andare a ridere a fine “carriera”. Ma una tenda rappezzata, un container. Dove almeno poter scrivere «Chelsea», la squadra del cuore. Come ha fatto Io capitano, Yaya Diallo.

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