La pianta è da sempre associata a un’idea di ieratica staticità. Le sue radici affondano profondamente, tenendola saldamente ancorata al suolo. Le piante sono spesso un punto di riferimento per orientarsi nello spazio della natura, al pari di un faro per i naviganti. Tracciano il confine di un campo o segnano il percorso di una strada, come nelle poetiche reminiscenze bolgheresi. La pianta è considerata un elemento vivente di una topografia statica, ontologicamente destinata a rimanere immutata nel tempo.

Nel linguaggio comune, il termine radici è diventato simbolo ancestrale di appartenenza a un luogo. Il giaciglio di Ulisse, ricavato da un ceppo d’ulivo solidamente radicato all’amata Itaca, è un’illuminante icona di questa concezione: «Non so se il mio letto è fisso tuttora o se un uomo, tagliato il tronco d'ulivo alla base, altrove lo mise». Tagliare il tronco, recidere le radici, sembrano essere gli unici atti che violentano l’immutabile natura della pianta. La circolare crescita degli anelli del tronco, precipita nella spirale di un tempo infinito, nel mondo delle piante secolari, sopravvissute a generazioni nello stesso luogo, silenziose testimoni della storia. Tuttavia basta guardarci attorno per scoprire che siamo circondati da varietà di alberi che provengono da tutto il mondo, trasportati da un continente all’altro per abbellire il paesaggio.

C’è una pianta, però, che fin dai tempi più antichi ha sempre avuto una vocazione nomade. Una pianta speciale, che anche per la sua particolare natura, è sempre stata un’esploratrice. La vitis vinifera è un arbusto della famiglia delle liane, portata ad arrampicarsi sugli alberi con i suoi lunghi tralci, alla ricerca di luce e delle migliori condizioni per garantirsi la sussistenza. Se già per natura è una pianta dal carattere dinamico, invadente ed espansivo, la sua storia ne ha sancito il destino nomade.

Una pianta “On the Road”, irrequieta e vagabonda come il romanzo di Kerouac e il mood della Beat Generation; fluida e senza confini come la poetica del viaggio, intima e solitaria, del cinema di Wim Wenders. La storia della vite è strettamente legata all’uomo, ai suoi spostamenti e alle sue migrazioni. Il processo di domesticazione della vite è stato complesso e articolato. Si è svolto in varie epoche e luoghi differenti, con un primo centro che si fa risalire all’area caucasica del VI-V millennio a.C. Una secondo periodo viene identificato tra il III-II millennio a.C. in Grecia e nelle terre dell’antica Enotria, corrispondente alla zona del sud Italia, per poi proseguire verso le sponde occidentali e settentrionali del Mediterraneo nel corso del II-I millennio a.C.

La vite ha viaggiato con gli spostamenti e le migrazioni delle antiche popolazioni, seguendone gli itinerari, le rotte degli scambi commerciali e le conquiste di nuove terre. Un lungo percorso fatto di continue ibridazioni, di incroci spontanei con altre uve locali, che ha generato una grande variabilità e pluralità genetica.

I Fenici cominciarono a solcare il mar Mediterraneo nel corso dell’VIII-VII sec. a.C. portando la cultura della viticoltura nei loro scali commerciali. Nello stesso periodo i Greci iniziavano la loro colonizzazione del Mediterraneo occidentale, fondando le prime colonie nel sud Italia. A loro si deve l’introduzione di molti vitigni e la pratica della potatura ad alberello. Le popolazioni etrusche portarono la viticoltura dalle coste del litorale toscano e laziale verso l’entroterra, diffondendo la coltivazione della vite maritata agli alberi. Nei secoli successivi la vite seguì l’espansione di Roma verso le nuove Provincie dell’impero, fino ai territori del centro Europa. Il viaggio della vite riprese con la scoperta del Nuovo Mondo.

Arrivò nelle Americhe con i Conquistadores, per poi proseguire l’itinerario oceanico verso il Sudafrica, l’Australia e la Nuova Zelanda. Nella seconda metà dell’Ottocento, soprattutto dopo la devastazione del vigneto europeo causata dalla fillossera, i più famosi vitigni francesi si sono ampiamente diffusi nel Vecchio Continente e poi nel mondo, tanto da venire comunemente chiamati vitigni internazionali: cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc, syrah, chardonnay, sauvignon blanc. Alcune uve francesi, che avevano trovato poca fortuna in patria, hanno intrapreso lunghi viaggi prima di diventare simbolo di importanti territori del vino: si pensi al malbec in Argentina, al tannat in Uruguay o al sauvignonasse nel Collio e nei Colli Orientali, prima chiamato tocai e poi friulano. Un viaggio straordinario e senza confini, di una pianta che ha sempre condiviso con l’uomo la natura e un destino irrequieto, nomade e migrante.

Abbiamo scelto tre esempi emblematici di vitigni famosi che hanno compiuto lunghi viaggi, a volte reali, altre volte solo immaginari, ma comunque suggestivi e interessanti.

“Così lontano, così vicino”: il gewürztraminer

Il gewürztraminer è uno vitigno aromatico, famoso per i suoi profumi floreali, speziati e le sue note tropicali di litchi e di frutto della passione. In Italia è coltivato soprattutto nella zona di Termeno-Tramin. La similitudine tra il nome del vitigno e del paese altoatesino, in passato aveva fatto supporre che l’uva fosse originaria di questa zona. Tuttavia le più recenti analisi genetiche sul vitigno hanno confutato l’ipotesi. Il gewürztraminer è frutto di una mutazione genetica spontanea di un’antichissima varietà di vitis vinifera: il savagnin o traminer (Wine Grapes, Jancis Robinson, Julia Harding, José Vouillamoz) dell’area corrispondente al nord-est della Francia e al sud-ovest della Germania. Nonostante la fuorviante assonanza con il nome del paese di Termeno, il gewürztraminer non è un vitigno dell’Alto Adige, ma ha viaggiato dal centro dell’Europa fino alla Bassa Atesina.

“Falso movimento”: la syrah

Forse per il suo nome vagamente esotico o per i suoi speziati aromi orientaleggianti, le origini della syrah hanno suggerito ipotesi fantasiose. Come spesso accadeva in passato, sono state fatte supposizioni basate su similitudini con possibili luoghi d’origine. Facile e affascinante pensare a una provenienza dalla città iraniana di Shiraz. Ma torniamo ai fatti.

Storicamente il vitigno è presente soprattutto nell’alta Valle del Rodano. Nel XIII secolo, il cavaliere Gaspard de Stérimberg, di ritorno dalle Crociate, decise di abbracciare la vita da eremita isolandosi su una collina affacciata sul Rodano, dove costruì una piccola Cappella e piantò una vigna con le viti portate dalle terre dell’oriente. Tutto vero? Quasi. La Cappella esiste e dona anche il nome a una delle etichette più prestigiose dell’AOC Hermitage. Le analisi genetiche sulla syrah, invece, hanno smontato questa avventurosa ricostruzione. Il vitigno è il frutto di un incrocio spontaneo tra la moundeuse blanche, una varietà proveniente dalla Savoia e la dureza, un’uva della regione dell’Ardeche. La syrah non è quindi una varietà portata dall’oriente da un nobile Cavaliere, ma è originaria dell’area compresa tra il Rodano e le Alpi. In questo caso l’itinerario da oriente a occidente, dalla Terra Santa al Rodano è solo un affabulante viaggio immaginario.

“L’amico americano”: lo zinfandel

Uno dei vitigni più coltivati e conosciuti degli Stati Uniti è lo zinfandel, un’uva a bacca rossa presente soprattutto in California, erroneamente considerata locale. Da un punto di vista genetico, lo zinfandel corrisponde al vitigno pugliese primitivo. Tuttavia anche il primitivo non è originario del Tavoliere, per scoprire il luogo di provenienza bisogna attraversare il mar Adriatico. È nella regione del Montenegro che si trova un’antichissima varietà conosciuta con il nome di kratošija che possiede lo stesso dna del primitivo.

Dunque il vitigno ha percorso un lungo viaggio. Dall’area balcanica la kratošija è approdata in Puglia, dove è stata rinominata primitivo per la sua maturazione precoce. Negli Stati Uniti il vitigno è arrivato nella prima metà dell’Ottocento, molto probabilmente con le prime ondate migratorie provenienti dall’Europa, per poi riprendere il viaggio verso altri continenti.

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