Julian Alfred, medaglia d’oro dei 100, è di Santa Lucia. Thea Lafond, medaglia d’oro nel salto triplo, è di Dominica. La popolazione delle due isole arriva a 250.000 abitanti. Per l’una e per l’altra è una prima volta. L’ingresso tra chi, in questi 128 anni, ha vinto ai Giochi.

Lo stupore è proibito: le isole nella corrente, come le chiamava Hemingway quando usciva in mare sulla Pilar, le Indie Occidentali, le isole Sopravvento e Sottovento, il Caribe che ha nel suo centro la Giamaica miniera di campioni, sono calore e colore, sono crocevia di culture, sono una babele di lingue dei vecchi padroni – inglese, spagnolo, francese, olandese – e l’areale per la nascita di un idioma, il creolo. Sono anche una grande distilleria: il rhum giamaicano è diverso da quello di Barbados.

L’isola dei Nobel

Santa Lucia è in testa alla classifica dei premi Nobel. Piccola com’è ne ha avuti due, Arthur Lewis per l’economia nel 1972, Derek Walcott nel 1992. Insegnava scrittura creativa all’università di Providence e in ogni sua poesia c’è il senso di una frattura, quella della tradizione africana spezzata dagli anni della tratta degli schiavi, dell’esodo forzato dal grande regno del Dahomey che in quegli anni oscuri comprendeva anche le magnifiche tribù della Nigeria.

Quelle che un tempo venivano chiamate isole nel sole hanno carnevali violentemente allegri ma dove non manca mai il richiamo alla caducità della vita, hanno dato al mondo il calypso, il reggae e il melodico cubano del Buone Vista Social Club. Sono creativi e, anche se i secoli sono passati, mantengono i geni delle più belle popolazioni razziate dagli schiavisti, specie i portoghesi.

E così sono nati i campioni ed è stato naturale che nascessero. E hanno avuto la riconoscenza dei loro paesi. A Kingston, Giamaica, attorno al National Stadium è nato un Olimpo di statue dedicate a Arthur Wint, il primo oro giamaicano, a Don Quarrie, a Merlene Ottey, naturalmente a Usain Bolt, il nume assoluto, il Lampo.

Grenada ha dedicato la strada che porta dall’aeroporto in centro a Kirani James, campione olimpico dei 400 a Londra. Trininad intitolò il suo primo e forse unico Jumbo a Hasely Crawford, oro nei 100 nel 1976 e ha regalato un’isola con faro a Keshorn Walcott che a Londra, a 19 anni, cambiò la storia: nel giavellotto era finita l’epoca dei lanciatori che venivano dal Baltico.

I talenti del Caribe, un tempo, finivano nelle università americane. Merlene Ottey ricordava speso i freddi inverni del Nebraska. In certi casi è ancora così. Julian Alfred, olimpionica in 10”72, con ingresso tra le dieci più veloci della storia e con un margine impressionante sulla seconda (15 centesimi assestati alla balzana Sha’Carri Richardson), dopo un passaggio in Giamaica è cresciuta in Texas, diventando la dominatrice dei campionati Ncaa, al coperto e all’aperto. Thea Lafond ha un passato nella Maryland University.

Una nuova autonomia

Ma un processo nuovo si è creato con l’apparire sulla scena di Bolt: l’organizzazione di gruppi che non lasciano la Giamaica, che attraggono campioni (come il britannico Zharnel Hughes, nativo di Anguilla), sotto la regia di allenatori come Glenn Mills e Stephen Francis. Una maniera netta per affermare una propria indipendenza, una nuova autonomia.

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È una lunga storia, aperta da Silvio Cator, il campione del primo paese nero indipendente, Haiti, che sfiorò l’oro olimpico ad Amsterdam e, sempre nel 1928, diventò primatista del mondo del lungo atterrando a 7,93.

E, a seguire, i meravigliosi giamaicani del Dopoguerra che brindarono all’oro nella 4x400 in compagnia di Filippo di Edimburgo con una bottiglia di whisky e un bicchiere, l’unico che avevano, per gli spazzolini da denti; il sorgere della potenza di Cuba, sostenuta dall’aiuto tecnico fornito da Unione sovietica e Polonia, sbalorditi da quei campioni di forza elastica.

Marie José Perec, francese di Basseterre, Guadalupa, che ad Atlanta eguaglia Michael Johnson con la doppietta 200-400; i calligrafici bahamensi Shaunae Miller e Steven Gardiner, interpreti del giro di pista; l’età imperiale di Bolt, lunga tre cicli olimpici, scanditi da record mondiali che non corrono pericoli; l’arrivo in scena della Repubblica Dominicana e di Puerto Rico.

Kim Collins

Nella sera del primo oro di Santa Lucia e di Dominica, l’argento nel salto triplo della giamaicana Shanieka Ricketts e il bronzo nel decathlon del potente grenadino Lindon Victori. Parigi vuol bene alle isole e l’affetto è ricambiato.

Ai Mondiali del 2003 un vivace piccoletto vinse i 100 correndo in prima corsia, in un tempo abbastanza modesto, 10”07, ma sufficiente per avere la meglio sul resto della compagnia. La sigla accanto al nome di Kim Collins era SKN, St Kitts e Nevis. «Cos’è questa roba?» gli domandò una volta un agente, al suo arrivo ad Amsterdam. «È il passaporto del mio paese», rispose Kim che aveva visto la luce in un piccolo paese che si chiama Bastille e che quella notte festeggiò sino all’alba.

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