«Chissà se si rendono conto del momento che stanno per affrontare» diceva Lea Pericoli dalla tribuna del Palazzetto dello sport di Charleroi, nel settembre del 2006. Pronunciava queste parole mentre al centro del campo erano schierate Francesca Schiavone, Flavia Pennetta, Roberta Vinci e Mara Santangelo che stavano per giocare la finale della Federation Cup, la Coppa Davis femminile, contro il Belgio di Justine Henin.

Pronunciava quelle parole, Lea, con quello sguardo fra il sognante e il triste che nascondeva dietro agli occhialoni con le lenti sfumate e che era il suo segno distintivo. Per lei, simbolo del tennis italiano femminile, quella finale era il punto di arrivo di tutta la sua vita.

Vincere la Fed Cup (oggi si chiama Billie Jean King Cup, intitolata alla campionessa che ha creato per le donne il tennis così com’è oggi) per lei che era stata numero 1 d’Italia per 18 anni, fra il ’59 e il ’76, era la conferma che il suo cammino non era finito nel nulla. Un cammino che, ad onta di quella pubblicistica che nel tempo l’aveva ridotta alla tennista con le mutandine di pizzo sotto il gonnellino, era anche e soprattutto rivolto alle donne, non certo all’immaginario maschile. Lea si sentiva una persona che giocava per dire quanto il tennis giocato dalle donne fosse bello e intenso, tanto quanto quello dei maschietti, forse di più.

Per questo quando le ragazze del 2006 vinsero la Coppa a Charleroi, la prima di cinque, il sorriso e le malcelate lacrime con cui accarezzò quel trofeo nulla avevano di pubblicitario, se non la gioia per una vita che in quel momento aveva trovato il suo punto di approdo. Io ho camminato, voi avete colto i frutti. Un’immagine così simile a quella di Yannick Noah e Henri Leconte che porgevano la Coppa Davis vinta dalla Francia nel ‘91 a un commosso Jean Borotra. 

Chi è stata

Lea Pericoli è morta ieri a 89 anni. Da tempo era scomparsa dalle scene lasciando il solo Nicola Pietrangeli, il sodale di sempre, un compagno di avventure e sventure, a fare da trait d’union fra il tennis degli anni ’60 e quello attuale. Moltissimi l’hanno conosciuta nella seconda veste della sua esistenza, quella di commentatrice sul canale generalista che allora si chiamava Telemontecarlo.

Lei, voce unica, raccontava il tennis con lo stesso aplomb che allora si poteva associare, senza sferragliare di forchette e vassoi, ad una habituée del ristorante del Country Club del Principato: una per cui il tennis era rimasto un gioco aristocratico che rappresentava anche l’occasione per sfoggiare l’ultimo foulard di Hermes. Diceva 15 “a” zero, non “quindici-zero” e in quella vocale fra i due numeri c’era tutto l’orgoglio europeo che era distante dalla generale semplificazione anglosassone.

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Come pronunciava lei “tie break” non lo faceva nessun altro, né avrebbe potuto. Ma prima della televisione c’era stata la tennista, quella che aveva impresso allo stile sul campo una svolta d’immagine. Merito suo e di Ted Tinling, il sarto delle tenniste, che per la sua prima apparizione a Wimbledon, correva l’anno 1955, la vestì di rosa (non di bianco!) e per di più con un abitino corto che sapeva di sottoveste.

Tinling con lei si sbizzarrì per un decennio con piume, coulotte, spalline e tutto quanto serviva a renderla quella che oggi si definirebbe un’icona ma che si rivelò, nel tempo, un esempio di personalità unica e soprattutto l’interprete di quel senso di orgoglio femminile, in un ambito per sua natura conservatore come quello del tennis dell’epoca. Ebbe un impatto straordinario. Specie se si pensa che lei nata ad Addis Abeba, in Etiopia (la famiglia si era trasferita lì dopo la guerra) e poi studente in Kenya era conscia che con gli abitini di Tinling sarebbe sì diventata il simbolo di un abbattimento delle convenzioni, ma avrebbe anche dovuto pagare un prezzo salato.

Dopo il rosa del match contro la spagnola de Riba ai Championships il padre praticamente la rinchiuse in casa per un anno. In campo non ha vinto quanto altre stelle: quattro volte agli ottavi al Roland Garros e tre a Wimbledon. A Roma nel ’67 ha giocato la semifinale contro Maria Bueno raccattando la miseria di due game. È stata definita finché ha giocato “la Divina”, aggettivo riservato prima di lei solo a Suzanne Lenglen, da cui la separavano mezzo secolo e diversi centimetri di gonna.

Non picchiava la palla, amava il pallonetto specie in coppia con l’inseparabile Silvana Lazzarino. Del resto il colpo violento è così volgare: non l’avrebbe mai accettato, Lea.

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