Ventuno anni fa il Perugia Calcio portò in Serie A il primo giocatore libico, Saadi Gheddafi, noto più per essere figlio di Muhammar Gheddafi che per le doti tecniche. Ventuno anni dopo quella breve e poco memorabile parentesi, decine di calciatori libici sono tornati in Italia. Sei squadre di calcio e una delegazione di 35 funzionari della Federcalcio locale sono qui per giocare le finali del loro campionato: un torneo a sei squadre, per un totale di 15 partite che assegneranno non solo lo scudetto, ma anche due posti in Champions League africana e due nella Confederation Cup africana.

Una decisione, questa, frutto del viaggio a Tripoli della premier Giorgia Meloni e del ministro dello Sport, Andrea Abodi, il 7 maggio scorso nella cornice del Piano Mattei. La prima partita si sarebbe dovuta disputare il 24 giugno, ma qualcosa è andato storto.

I libici hanno chiesto di rinviare tutto perché non erano soddisfatti dei campi messi a disposizione, degli hotel dove alloggiavano e di alcuni servizi forniti dalle autorità italiane, mentre i quotidiani libici accusavano l’Italia per il ritardo. La nuova data fissava l’inizio della competizione al 1° luglio, ma le squadre sono atterrate soltanto il 2 luglio a Fiumicino con un aereo che ha fatto due viaggi, per trasportare anche i giornalisti locali.

Se non ci saranno ulteriori problemi, i playoff inizieranno il 4 luglio. Ma chi segue da vicino il dossier non esclude nuovi colpi di scena: del resto, finora, le autorità italiane hanno passato giorni ad accontentare le richieste del presidente della Federcalcio libica, Abdulhakin Al-Shalmani.

Giravolte

Da programma iniziale, le partite si sarebbero dovute disputare in alcuni stadi della Toscana: il Viola Park della Fiorentina, il Castellani di Empoli e l’Arena Garibaldi di Pisa. Non soddisfatta delle strutture, la delegazione libica ha rifiutato ed è tornata in patria. Qualche giorno dopo c’è stato il ritorno in Italia, stavolta a Roma, ma anche qui non sono mancate richieste sopra le righe. Ai libici le autorità italiane hanno proposto alcuni campi del Lazio (Ladispoli, Cerveteri, Santa Marinella), ma anche in questo caso i sopralluoghi hanno portato al “no” della Federcalcio libica. Alla fine, dopo strenue trattative, i campi selezionati si trovano tra Abruzzo e Campania: Caserta (stadio Pinto), Avellino (stadio Partenio Lombardi), Teramo (stadio Gaetano Bonolis) e Aquila (stadio Gran Sasso d’Italia). Anche questi però sono in erba sintetica e richiedono continui spostamenti per calciatori che devono giocare più partite in pochi giorni.

Qualche disguido c’è stato anche per la selezione degli arbitri. La federazione libica ha chiesto terne arbitrali straniere, nello specifico francesi. Le partite invece saranno dirette da arbitri libici e italiani: l’Associazione italiana arbitri deve capire a chi dare l’incarico, considerato che cinque fischietti sono impegnati agli Europei in Germania, altri cinque in Coppa America negli Stati Uniti, mentre altri ancora sono in ferie in vista del raduno per la nuova stagione, a fine luglio.

Tra tira e molla e minacce di mandare tutto all’aria, le 35 persone della delegazione libica hanno soggiornato in Italia più tempo del previsto. A loro e alle squadre sono stati messi a disposizione un albergo in Toscana e quattro hotel a Roma. Contattati da Domani, i responsabili degli alberghi si sono rifiutati di rispondere sui costi degli alloggi e sull’accoglienza dei libici.

Lo sponsor petrolifero

Dal ministero dello Sport fanno sapere che le autorità italiane hanno fornito «soltanto un sostegno tecnico». A organizzare il torneo è stata l’agenzia svizzera Sport Global Management, che ha detto a Domani che le spese sono a carico dello sponsor: l’azienda petrolifera Tamoil, del gruppo olandese Oilinvest, a sua volta posseduto dalla Lybian investment authority. L’iniziativa non è stata a costo zero per l’Italia, che ha dovuto mettere a disposizione agenti, mezzi e moltissima pazienza.

Il torneo è passato pubblicamente come un tassello del Piano Mattei, locuzione ormai abusata nell’agenda politica estera del governo, ma in realtà è stato pagato dai petrolieri. Le basi politiche sono state gettate a maggio, quando Meloni, Abodi e i ministri dell’Università e della Salute, Anna Maria Bernini e Orazio Schillaci, sono volati a Tripoli per il piano dedicato al fondatore dell’Eni. Ognuno aveva un obiettivo chiaro: quello di Abodi era firmare intese volte alla realizzazione e riqualificazione di impianti sportivi in Libia, oltre all’accordo sulle finali scudetto da giocare nei nostri stadi.

In cambio l’Italia ha ottenuto garanzie su un maggiore controllo delle frontiere per fermare l’immigrazione illegale. D’altronde è questo il fine principale dell’esecutivo Meloni: fermare i flussi, anche attraverso mezzi di soft power. Anche se questo significa accontentare ogni capriccio dei libici e sorvolare sui metodi brutali della loro guardia costiera.

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