Il 26 Agosto 2015, vedendo le luci della nave battente bandiera svedese che tagliava l’oscurità della notte nel mezzo del Mediterraneo, Badr Kakouch aveva creduto che le sue preghiere si fossero esaudite. I soccorsi stavano arrivando. Tra le urla disperate di altre centinaia di migranti che, come lui, avevano tentato la traversata dalla Libia all’Italia a bordo di una piccola imbarcazione di legno, per la prima volta dopo ore si sentì travolgere da qualcosa che credeva aver perso: un senso di speranza. Quella sensazione però era durata pochissimo.

Dì li a poco Kakouch, sarebbe stato accusato ingiustamente di essere tra i responsabili dell’imbarcazione. Come per centinaia di altri migranti e richiedenti asilo arrivati in Italia e accusati di essere scafisti, per lui sarebbe iniziato un calvario giudiziario di anni, segnato da un’indagine lampo e dallo slalom tra gli ostacoli al diritto alla difesa e al giusto processo.

Originario di Kenitra, una città nel nord-ovest del Marocco, Kakouch aveva deciso di andarsene a 23 anni. La prima fermata era stata la Libia. Dopo due anni aveva risparmiato abbastanza per tentare la traversata dal Mediterraneo all’Italia e lasciarsi alle spalle l’inferno della guerra civile libica.

I trafficanti l’avevano tenuto diversi giorni a Zuwara, nel nord della Libia, stipato insieme a decine di altre persone in una connection house, un luogo di transito, dove i migranti sono tenuti rinchiusi in attesa della traversata. Una notte le porte si sono aperte.

La storia è ricostruita negli atti del processo. I trafficanti hanno caricato lui e altre 493 persone su una barca di appena 20 metri; tutti infilati, uno dietro l’altro con le gambe a V. Kakouch si è trovato intrappolato in un ammasso di corpi appiccicati uno all'altro.

Anche quando il mare si è ingrossato, muoversi è risultato impossibile. A diverse miglia dalla costa, quando il motore aveva cominciato a scaldarsi, Kakouch e la famiglia siriana di fianco a lui hanno sentito delle urla provenire dalla stiva, dove l’aria era diventata irrespirabile. «Lì abbiamo capito che sotto di noi c’erano delle altre persone», ricorda «ci siamo messi a pregare e a piangere». Sono morte asfissiate 53 persone, una delle più gravi tragedie del Mediterraneo nel 2015.

A prestare soccorso non è arrivata una nave qualsiasi ma un’imbarcazione della guardia costiera svedese impiegata nella flotta di Frontex, l’Agenzia della guardia di frontiera europea. Una volta in salvo, alcuni naufraghi hanno indicato al capitano della nave di Frontex Kakouch e altri sei migranti come appartenenti all’equipaggio che aveva condotto l’imbarcazione di legno. Kakouch è stato accusato di aver mantenuto l’ordine sulla barca e di aver impedito alle persone nella stiva di uscire.

In realtà il processo ha rivelato che a bordo della nave di Frontex non vi erano interpreti in grado di tradurre puntualmente le accuse. Ai testimoni, tre pakistani e un ghanese, era stato assegnato un interprete bengalese, incapace di fornire una traduzione puntuale.

Le accuse in Italia

Migrants wait to be rescued off the coast of Lampedusa, Italy, late Monday Jan. 24, 2022. Seven migrants have died and some 280 have been rescued by the Italian Coast Guard after they were discovered in a packed wooden boat off the coast of the Italian island of Lampedusa. (AP Photo/Pau de la Calle)

Eppure quando la nave è attraccata al porto di Palermo, l'indagine si è risolta subito. La polizia italiana ha raccolto la testimonianza dei quattro migranti già ascoltati dal capitano di Frontex, un campione che rappresentava appena l’1 per cento dei passeggeri che si erano imbarcati in Libia. Nessuno ha tenuto conto del fatto che una delle due persone che, nello specifico, avevano accusato Kakouch aveva avuto una discussione con lui durante la fase dell’imbarco. Secondo i giudici del processo in primo grado l’accusa sarebbe stato una ritorsione.

Kakouch non ha fatto in tempo a capire nemmeno dove si trovasse, è stato subito portato in questura e poi in carcere.

Oltre al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è anche stato accusato di aver provocato la morte per asfissia di 53 persone nella stiva. Il pubblico ministero ha chiesto l’ergastolo. Kakouch e tutti gli altri imputati sono stati assolti per non aver commesso il fatto sia in primo grado che in appello.

Ma in attesa della sentenza di primo grado Kakouch ha trascorso tre anni e mezzo in carcere, in custodia cautelare. «Quell’esperienza mi ha distrutto la vita, la testa, il futuro», dice.

Oggi, a più di tre anni dalla scarcerazione, di nuovo a casa in Marocco, Kakouch ha spesso incubi in cui sogna di trovarsi ancora in prigione. «Venivo visto come un assassino e trattato come tale, nessuno credeva alla mia innocenza».

Quello di Kakouch non è un caso isolato. Secondo un rapporto di Arci Porco Rosso e Alarm Phone, tra il 2015 e il 2021 almeno 2.056 persone sono state fermate dalla Polizia di stato con l’accusa di essere scafisti o basisti e molti di questi fermi sono stati il risultato di indagini lacunose e superficiali, condotte sotto la pressione di dover trovare un colpevole.

I fermi e gli arresti continuano ancora oggi. Ma la storia del giovane marocchino è esemplare anche dal punto di vista del problema drammatico dei processi italiani a imputati stranieri.

Nella sentenza di assoluzione di Kakouch, oltre allo scarsissimo numero di testimoni ascoltati e all’utilizzo di un interprete di una lingua diversa, i giudici hanno sottolineato diversi aspetti problematici nella conduzione delle indagini.

Tra questi il sospetto che, già sulla nave di Frontex, i testimoni siano stati incentivati ad accusare lui e gli altri con la promessa di un permesso di soggiorno, una modalità che il rapporto di Arci Porco Rosso e Alarm Phone ha identificato come ricorrente in molti di questi casi.

Vittime del sistema

Foto AP

«Queste persone sono vittime del sistema», afferma Flavia Patané, ricercatrice dell’Università di Maastricht e co-autrice di uno studio dell’Università di Amsterdam secondo cui la maggior parte delle persone arrestate in Italia come scafisti sono migranti e richiedenti asilo e non appartengono alle reti di trafficanti. Dal 2015, infatti, per sfuggire alle autorità italiane ed europee, le reti del traffico hanno cambiato le proprie modalità operative, affidando il controllo delle imbarcazioni ai migranti stessi.

I trafficanti, insomma, rimangono in Libia e, come spiega Patané, «sono sempre più invisibili». Secondo lo studio, in molti casi le persone arrestate sono state costrette con la forza dai trafficanti stessi a prendere il controllo dell'imbarcazione.

Questo cambio di strategia è stato riconosciuto anche dal procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro. In un’audizione parlamentare del 2017, ha definito i migranti e richiedenti asilo che si ritrovano alla guida di un’imbarcazione come «vittime di un traffico che specula chiaramente sulle loro esigenze».

Nonostante questo, accusa Borderline Sicilia, le procure dell'isola hanno continuato a perseguire migranti e richiedenti asilo come scafisti. «Questi casi sono lo specchio della politica», spiega Patané. «l’Unione europea ha messo forte pressione sulle autorità nazionali per contrastare il traffico di migranti e l’immigrazione irregolare».

La zona grigia legislativa

Migrants watches the sea as they sit on a rock on the Island of Lampedusa, southern Italy, Wednesday, May 13, 2015. The European Union is seeking a U.N. Security Council resolution within days to let its members hunt down human traffickers in the Mediterranean and destroy their boats, a senior EU official said Tuesday. (AP Photo/Antonio Calanni)

Dal punto di vista legale, questi procedimenti sono resi possibili da un meccanismo giuridico che permette di perseguire come trafficanti anche i migranti e richiedenti asilo sospettati di condurre la propria imbarcazione. «Nella legge italiana non esiste una differenza tra traffico di migranti e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», spiega Patané.

Per questo a chi è sospettato di aver fatto parte dell’equipaggio, come nel caso di Kakouch, o di aver tenuto il timone della propria imbarcazione anche solo per qualche minuto, o persino di avere passato una bottiglietta d’acqua ad altri passeggeri, viene contestato lo stesso reato che sarebbe contestato ad un trafficante: l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Mentre le inchieste internazionali sulle reti del traffico – che richiedono indagini molto complesse, collaborazioni con paesi terzi, risorse notevoli e alte competenze - rimangono ancora poche, secondo diversi esperti legali, l’articolo 12 permette alle procure di aprire un alto numero di procedimenti contro presunti scafisti, offrendo un’impressione di efficienza.

Secondo Germana Graceffo, avvocato di Borderline Sicilia, i migranti e i richiedenti asilo arrestati come scafisti sono un «capro espiatorio perfetto, la magistratura ha trovato il colpevole e l’opinione pubblica ha trovato la persona responsabile e così siamo tutti a posto con la coscienza».

Senza difese

La custodia cautelare in carcere in attesa di giudizio viene applicata spesso in casi di questo tipo, in cui gli accusati sono appena sbarcati in Italia e non hanno un domicilio. La complessità di questi processi e la lentezza del nostro sistema giudiziario fanno sì che spesso persone innocenti finiscano per passare anni in una cella, prima di un’assoluzione.

Per loro provare la propria innocenza rimane un’impresa complessa e costosa. Diversi esperti legali intervistati hanno sottolineato come le iniquità strutturali del nostro sistema di giustizia, tra cui la difficoltà di accedere ad avvocati esperti e la mancanza sistemica di interpreti qualificati, negano di fatto il diritto al giusto processo ed espongono chi non è italiano e non parla la lingua ad un alto rischio di errori giudiziari.

«Ci sono enormi disagi dal punto di vista difensivo», dice Rosa Lo Faro, una penalista siciliana che ha rappresentato decine di migranti e richiedenti asilo accusati di essere scafisti. Nella maggior parte dei casi, chi è accusato di essere uno scafista viene inizialmente rappresentato da un avvocato d’ufficio.

Secondo il rapporto di Arci Porco Rosso e Alarm Phone, spesso questo significa non avere la possibilità di essere difesi adeguatamente. «I difensori d’ufficio, a volte, non fanno neanche le copie degli atti», spiega Lo Faro, «a volte sono ragazzi di prima nomina, non hanno soldi e lo stato non anticipa le spese processuali, i difensori sono pagati alla fine del procedimento».

Ottenere una copia di un filmato di salvataggio, spesso necessaria per costruire una difesa, può costare fino a 300 euro, una cifra che molti difensori d’ufficio non possono permettersi di anticipare per ogni assistito.

«Di fatto non sei messo nelle condizioni di poterti difendere», spiega Cinzia Pecoraro, difensore di Kakouch, una delle penaliste che hanno difeso più migranti e richiedenti asilo accusati di essere scafisti. Kakouch è riuscito a nominarla solo alcuni mesi dopo il suo arresto.

«Mi aveva visto difendere un altro migrante, arrestato con lui». Per questo cliente, Pecoraro aveva svolto un’indagine difensiva approfondita, rintracciando nei centri di accoglienza testimoni che potessero provare la sua innocenza. Grazie a questo lavoro, era stato scarcerato dopo un mese di custodia cautelare.

Nel caso di Kakouch, Pecoraro era stata nominata quando alcune scelte difensive determinanti erano già state fatte: «Subentrare in una difesa del genere è sempre difficile, l'avvocato d’ufficio non aveva fatto nessuna indagine difensiva e gli aveva consigliato di avvalersi della facoltà di non rispondere».

Kakouch le ha affidato l’incarico grazie al gratuito patrocinio, una modalità che permette a chi è in situazioni di indigenza di scegliere liberamente un avvocato a spese dello stato. Anche l’accesso al gratuito patrocinio però presenta molti ostacoli per molti migranti e richiedenti asilo.

Avvocati mai pagati 

Yohaness, from Eritrea, prays with other migrants as they arrive at the coast of Italy aboard the Spanish vessel Open Arms, on Jan. 4, 2021, after being rescued in the Mediterranean sea. (AP Photo/Joan Mateu)

Senza documenti e dichiarazioni fiscali che possano provare il basso reddito, i giudici possono infatti negare la richiesta e, anche quando questa è accolta, gli avvocati spesso devono aspettare mesi o anni prima di ottenere il pagamento del proprio onorario e il rimborso delle spese. «Devi sostenere tutte queste spese di difesa di tasca tua e poi verrai pagato tre anni dopo e il pagamento è ridicolo», dice Benedetta Perego, penalista di Torino che rappresenta molti migranti e richiedenti asilo con il gratuito patrocinio.

«Bisogna avere una grande etica professionale per difendere queste persone con gli standard alti che meritano». Nonostante la sua odissea giudiziaria, secondo Pecoraro Kakouch è tra i più fortunati: «Ha avuto un avvocato esperto in questo tipo di casi. Ma cosa succede a tutti gli altri che non ce l’hanno e che si perdono nel sistema?».

Molti fattori rendono le indagini difensive complesse e costose. Uno di questi è l’accesso ai testimoni. Spesso si tratta di altri migranti che hanno reso dichiarazioni accusatorie durante le indagini preliminari ma che poi, non avendo un numero di telefono o un indirizzo fisso, diventano irreperibili, impossibili da interrogare in udienza. Altre volte i testimoni si trovano nei paesi di origine o di transito e non possono viaggiare.

Nel caso di Kakouch, un testimone chiave per confermare la sua estraneità alla rete dei trafficanti era un amico con cui aveva deciso di tentare la traversata per l’Italia.

«Ha cambiato idea all’ultimo momento ed è tornato in Marocco perché la moglie doveva partorire», racconta Pecoraro che però è riuscita a ottenere il certificato di nascita della figlia che confermava le date, perché era importante che quel testimone comparisse in tribunale: «Ottenere un visto per l’Italia è difficile, abbiamo dovuto inviare gli atti del processo, l’ordinanza della corte di Assise e, quando tutto era pronto, il suo passaporto era scaduto».

Alla fine, con grande difficoltà e a spese proprie, l’amico è riuscito ad arrivare in Sicilia con un visto di cinque giorni e ha confermato tutto quello che diceva Kakouch.

Dove sono gli interpreti?

Questo caso illumina un altro problema strutturale, non solo per i casi dei presunti scafisti ma per tutto il nostro sistema giudiziario: la mancanza di interpreti qualificati, dovuta all’assenza di un albo di accesso alla professione e a compensi bassissimi.

Gli interpreti giudiziari sono pagati 14,68 euro in tutto per le prime due ore e 4 euro per ogni ora successiva. «È un’opportunità di lavoro povero che viene colta da chi non ha qualifiche», spiega Catia Lattanzi, presidente dell’Associazione Italiana Traduttori e Interpreti Giudiziari.

«Vi è uno scarso riconoscimento giuridico della professione, da cui discende uno scarsissimo riconoscimento finanziario. Dilaga la superficialità dell’approccio».

Secondo Lattanzi, inoltre, anche gli interpreti qualificati faticano a svolgere la professione: «Ci troviamo catapultati in aula senza sapere nulla del caso che andremo a tradurre, e invece bisognerebbe riflettere sul fatto che da una cattiva traduzione può dipendere la libertà di una persona».

Il giorno della sua assoluzione, prima di essere scarcerato, a Kakouch è stato notificato un provvedimento di espulsione. Pecoraro ha provato, senza successo, ad impugnarlo per consentirgli di essere presente al processo di appello.

«Il giudice ha detto che avrebbe potuto tornare in Italia, chiedendo un visto per motivi di giustizia», spiega il suo avvocato. Non potendosi permettere le spese di viaggio e soggiorno in Italia, Kakouch non ha potuto essere presente in aula per l’intero processo di appello.

«Il pubblico ministero ha chiesto l'ergastolo per una persona che hanno rimpatriato e che non si poteva difendere». Nonostante la sua assenza il processo d'appello si è concluso con la conferma della sua assoluzione.

Il sollievo, dice, non cancella gli anni che ha passato in carcere. «Per strada, tra la gente, a volte mi sembra di vedere le guardie, o gli altri carcerati, mi sembra di sentire la loro voce», racconta Kakouch.

Niente risarcimento

Migrants pray at the Franco-Italian border in Ventimiglia, Italy, during the holy month of Ramadan, Friday, June 19, 2015. The European Union will move ahead beginning next week on a plan to disrupt the business model of human traffickers in the Mediterranean Sea, diplomats said, speaking to the media Friday on condition of anonymity. (AP Photo/Thibault Camus)

Pecoraro ha chiesto un risarcimento di un milione di euro per ingiusta detenzione. La richiesta però è appena stata rigettata. «In Italia la legislazione tende a evitare il risarcimento», spiega l'avvocata, «i giudici cercano dei cavilli, che spero di far cadere in Cassazione far cadere».

Nelle motivazioni del rifiuto c'è anche un errore: si afferma che Kakouch era stato identificato come il pilota dell’imbarcazione mentre era stato solo accusato di aver fatto parte dell’equipaggio.

Secondo Pecoraro è il segno che i giudici non hanno nemmeno letto le carte del processo: «Queste richieste sono sempre rigettate. E anche se dovessero riconoscergli il risarcimento, la liquidazione sarebbe un problema, perché dovrebbe avere un documento italiano e un conto in Italia». E stiamo parlando di un innocente tenuto tre anni e mezzo ingiustamente in carcere.

Kakouch però continua a sperare: «Mi sento come un calciatore tenuto fermo per tre anni e mezzo all’inizio della carriera. Il risarcimento mi aiuterebbe a recuperare quei tre anni e mezzo di vita perduti».
Questo articolo è parte del progetto giornalistico Without Defense sostenuto da IJ4EU (Investigative Journalism for Europe).

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