“American or Swiss cheese?”. La scelta su quale formaggio aggiungere non è delle più semplici. Alla fine, trovandoci da Katz’s Delicatessen a New York e dato che il sovrapprezzo è identico (1 dollaro), optiamo per la prima (errore). Il panino lo gustiamo al primo tavolo libero, vicino a quello dove Sally aveva mostrato all’ingenuo Harry quanto sia facile per le donne fingere durante un rapporto sessuale. Una volta terminato, ci dirigiamo alla cassa per denunciare la nostra cena: un Pastrami Sandwich e due acque piccole.

Costo: 39 dollari, poco più di 36 euro. Non proprio quello che ci si attendeva dal più iconico dei deli newyorkesi, luoghi economici per antonomasia. La loro missione era sfamare gli immigrati ebrei che arrivavano negli Stati Uniti a partire dalla fine Diciannovesimo secolo, quando Katz’s ha aperto le sue porte con un’altra insegna – Iceland Brothers, poi cambiato con l’arrivo di altri componenti della famiglia. Vendevano cibo della tradizione kosher, mentre oggi questi piatti sono solo alcune delle voci sul suo menù. Per il New York Times Katz’s è ormai quasi solo business – il suo pastrami è «sia un pasto sia una cerimonia, capace di trasformare i turisti in newyorkesi e i newyorkesi in turisti»  – superato da altri deli come Frankel’s, Shalom Japan o Liebman’s. Segno che più di qualcosa è cambiato. La struttura e lo stile da tavola calda sono rimasti identici, ma a sedersi sono clienti di diverse nazionalità e classe sociale, ben lontani dalla figura del migrante povero. Motivo per cui è stato più facile alzare il livello.

Il concetto vale ovunque, anche a Brooklyn, da tempo non più considerato quartiere cheap. Ci fermiamo da Bonnie’s, ristorante statunitense cantonese. Condividiamo tre piatti: un cheng hao (cozze con burro dello Shaoxing e fagioli neri di soia fermentati), un wun tun ravioli (ripieni di gamberi e maiale, con salsa al burro di agrumi e parmigiano) e infine il char siu bk ribs sandwich (classico panino all’americana con cetriolini e costine marinate per tre giorni e cotte al vapore, ricoperte di glassa cha siu e mostarda piccante cinese, anch’esso presente nella lista dei migliori panini della città del Nyt). Aggiungiamo una birra Tsingtao in bottiglia da 0,33 cl e un analcolico. Spesa complessiva per la cena: 95 dollari.

Su New York si può dire di tutto, tranne che sia economica. L’inflazione qui si è fatta sentire con ancora più violenza, soprattutto sul cibo: a gennaio, rispetto a un anno prima, l’aumento di un pasto fuori costava il doppio di quello registrato nell’indice generale dei prezzi. I motivi dell’innalzamento generale sono tanti, a cominciare dalle turbolenze internazionali – dalla pandemia alle guerre – che stanno minando l’economia mondiale. Ma anche da coloro che abitano l’America, trasformando la sua cucina locale. Se il fast food più popolare era rappresentato da hot dog e cheeseburger, oggi lo sono il taco, l’Halal cart chicken o il cibo indiano. L’elaborazione richiede una ricerca dei prodotti più approfondita, che fa logicamente lievitare il prezzo finale. Va così da tempo, con rare eccezioni. La guida datata 2009 segnala che, all’epoca, per bere una birra al Brooklyn Brewery erano necessari 4 dollari, mentre adesso bisogna aggiungerne altrettanti. Ciononostante, qualche eccezione esiste.

Immersi nel Downtown

La pizza è uno degli emblemi cittadini, mangiato da tutti nonostante si possa arrivare a spendere 10 dollari per un trancio. Non da Industrie Pizzeria. Ce ne sono due, una nel West Village e un’altra a Williamsburg, dove andiamo. Il posto si presenta con spazi ridotti, riempiti da un bancone ad angolo. Sopra, svettano barattoli gialli di pomodoro italiano disposti su delle mensole.

Dietro, si sforna, si taglia e si confeziona senza sosta. Sono le dieci di sera, orario di chiusura. La scelta è imposta dall’annuncio di una ragazza che lavora lì: «Quello che è rimasto, prendete». E quindi uno slice con la burrata, due con la margherita, una new yorker (mozzarella, salsiccia, ricotta e pepperoni), un’acqua. Totale: 23 dollari. I prezzi oscillano dai 3 ai 7 dollari a trancio, condito con ingredienti italiani di alta qualità, un rimando alle origini salernitano-pistoiesi del padrone di casa Massimo Laveglia. Uscendo dall’Industrie e prendendo Havemeyer Street fino all’incrocio con Metropolitan Avenue, in cinque minuti a piedi si arriva da Fette Sau, un luogo che trasuda americanismo.

Si mangia dove si trova posto, seduti su panche di legno e lunghi tavoli sociali, ma solo dopo aver ordinato la propria consumazione. La scelta su cosa mangiare si trova al di là di una teca di vetro: petto di manzo marinato e affumicato, costine e spalla sfilacciata di maiale, alette di pollo, contorni vari - come le smashed potatoes. L’offerta varia di giorno in giorno e questa è solo la nostra cena, accompagnata da una pinta di Ipa e un bicchiere di Cabernet Sauvignon. Il costo è in base al peso della carne, ma con una media di trenta dollari a testa si esce più che soddisfatti.

In direzione Greenpoint, nel nord di Brooklyn, ci sono altre due tappe obbligatorie espressione del multiculturalismo che caratterizza New York. Taqueria Ramirez si mostra con una semplice porta, una finestra ancor più grande che affaccia su Oak Street e un davanzale su cui è possibile mangiare. Per il resto troviamo un bagno e, soprattutto, un maiale allo spiedo che ruota su stesso. È lui l’oggetto del contendere che va spartito tra i clienti lì presenti. Quello che ne esce è scritto con un pennarello rosso sul muro bianco piastrellato: Pastor, maiale marinato con ananas; Longaniza, salsiccia di maiale macinata con spezie; Suadero, composto da meet rose, il muscolo della contrazione noto come anche scacciamosche; Campechano, una combinazione degli ultimi due inserito tra i migliori sette piatti della città due anni fa. E poi Tripa, cotta a fuoco lentissimo; Nopales, cactus messicano saltato in padella con cipolla, aglio, guajillo e formaggio cotija, su cui mettere pelle di maiale croccante – nel gergo, chicharrón. Ogni taco costa 5 dollari e le salse da aggiungere a piacimento sono gratuite.

L’altra meta ci porta in Giappone, che da Taqueria Ramirez dista solo poche centinaia di metri. Taku Sando, a Greenpoint Avenue, assomiglia a una bakery, ma non lo è. Qui si viene per il katsu sando, il tradizionale panino nipponico composto da due fette di pane privato dei bordi, cotoletta fritta panata, salsa tonkatsu e cavolo. Lo si può scegliere di maiale, di pollo o vegetariano, con patate e uova. Costa 17 dollari, sotto la media per un pranzo a New York. Ma a proposito di bakery e colazioni nel Downtown: il nostro podio vede Ashbox, Hungry Ghost e Little Roy.

L’altra faccia dell’Uptown

Spesso si tende a dimenticare che Harlem è parte di Manhattan. Due dei cinque quartieri che compongono New York City si trovano sull’isola, uno la continuazione dell’altro sebbene l’uno l’opposto dell’altro. Sarebbe banale oltre che riduttivo contrapporre la ricca, bianca, Manhattan al povero, per lo più afro, Harlem. Niente che si discosti alla realtà, sia chiaro, con le due anime della cultura statunitense che si mescolano nell’isola. Sebbene le difficoltà siano tutt’altro che scomparse, Harlem è stata col tempo riqualificata e adesso non si limita più ad accogliere: celebre l’Harlem YMCA, nato per dare ospitalità agli afroamericani, tra cui Malcom X, in un’epoca in cui nelle maggior parte di queste strutture entravano quasi solo bianchi. Ora Harlem attrae anche. È qui che si mangia il miglior cibo soul (tipico della tradizione afroamericana) della città, esposto ogni anno all’HARLEM EAT UP!, un festival durante cui vari chef mescolano il cibo all’arte del quartiere. Non serve però essere cuochi professionisti per sentirsi tali: lo spirito di condivisione si manifesta nelle griglie dei barbecue lungo le strade, sopra cui vengono arrostiti tagli di carne di ogni tipo. A dettare i tempi è il gangsta-rap, culto laico da queste parti.

Poco più a sud, nell’East Village, ci si imbatte in un posto atipico. “Down with the occupation”. Più che un menù, quello di Ayat è un manifesto politico. Il ristorante palestinese si è distinto per il suo attivismo, professato ancor di più da quando la guerra è tornata a Gaza. Dove ha spedito del cibo a sostegno della popolazione, e lo stesso ha fatto nelle varie università americane per solidarizzare con la protesta studentesca. La cucina rispecchia la tradizione, dalle mezze al fattat jaj passando per i vari shawarma, e per un pasto si possono spendere tranquillamente 30 o 35 dollari. Grosso modo lo stesso che richiede Ivan Ramen, sempre nell’est di Manhattan. Il Giappone si trova sul muro, interamente tappezzato con disegni nipponici, e logicamente nei piatti: melanzane nipponiche fritte, con purea di sesamo e aglio arrostito e il classico ramen.

Dal lato opposto, sopra Greenwich Village, il consiglio su dove andare a mangiare è uno: perdersi all’interno del famosissimo Chelsea Market e scoprire quello che non ti aspetti. Eat Offbeat ha un menù scelto e preparato da rifugiati che adesso vivono a New York. Lo stesso proprietario, Manal Kahi, arriva dal Libano. Gli ingredienti si possono mischiare tra di loro, scegliendo tra una base di cous cous o riso jollof su cui mettere pollo yassa o kebab indi. A fianco, come contorno, zuppa di lenticchie, insalata di sommacco, dhal (una zuppa di legumi) o kibbeh.

Spostandoci nella Lower Manhattan, quello che appare come un semplice carretto a Washington Square è meno banale di quanto si immagini. Non per niente è stato eletto miglior street food della città nel 2007. Da Ny Dosas si assapora la cucina vegana dell’India meridionale, preparata al momento da un sempre sorridente signore con baffi e cappello. E quindi: masala dosas, crepes di riso e lenticchie ripiena di patate; uthappam di verdure miste; tagliatelle di Singapore, noodles piccanti, patate e verdure (ma solo il giovedì). Immancabili, i samosa ripieni di patate, piselli e verdure, servito con menta o chutney dolce. Con 15 dollari si pranza, anche perché a cena è chiuso. La stessa cifra richiesta dagli Hala Guys, ai piedi di Central Park. Il celebre Halal cart può essere mangiato a mo’ di panino o al piatto. C’è un’unica controindicazione, la fila, ma è un certificato indiretto di stima. Sempre per rimanere sui 20 dollari ma per virare sugli smash burger, Gotham Burger e i vari 7th Street Burgers sono due luoghi rifugio sicuri. In quello alle pendici di Times Square un uomo afroamericano sulla quarantina, in chiaro sovrappeso, entra e ordina un double cheesburger (9,5 dollari), patatine (4,5) e una mexican coke (3,5). Dentro lo stesso locale ci sono altre sette persone sedute ai tavoli: un solo bianco, l’unico non in sovrappeso.

È un caso, ma esemplificativo. Negli States, 4 adulti su 10 sono obesi mentre più di due terzi sono al di sopra del peso forma. Una percentuale che cresce tra gli afroamericani, ancor di più se donne, e indipendentemente dallo status socioeconomico. Tuttavia, per chi può permettersi anche altri posti più salutari, un fast food è una tentazione che ogni tanto va soddisfatta. Diverso invece il discorso per coloro che hanno un ventaglio di alternative limitato, costretti a rinunciare a uno stile di vita sano: nel 2022, circa 17 milioni di famiglie hanno conosciuto un certo livello di insicurezza alimentare, con 49 milioni di cittadini che hanno richiesto assistenza. La probabilità che tra questi ci siano afroamericani è molto alta, per via di una discriminazione che si fa fatica a cancellare, per i salari più bassi che percepiscono e per quelli che vengono chiamati deserti alimentari, ossia zone completamente prive di supermercati. L’alimentazione di scarsa qualità è una piaga sociale che colpisce le fasce più in basso della scala sociali, non solo in America, incapaci (non per colpa loro) di sostenere i costi che richiedono i cibi più sani. Le soluzioni si trovano. Ma quelle a basso prezzo sono sempre meno.

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