Il 6 maggio sciopererò. Non è una gran notizia che un giornalista Rai si astenga dal lavoro (qualcuno anzi commenterà, con sarcasmo: «Perché, davvero in Rai lavorate?»). Ma spero che notizia lo diventi per i telespettatori, se non vedranno in onda i programmi giornalistici di Rai 1, Rai 2 e Rai 3 con cui si informano quotidianamente milioni di persone. Fuori dai TG, infatti, esiste una categoria di giornalisti impegnati in programmi come Report, Presa Diretta, Porta a Porta, Chi l’ha visto, Petrolio, Agorà, Mi manda Rai 3 e molti altri, che arricchiscono l’offerta del servizio pubblico televisivo.

Da trent’anni ormai l’informazione in tv è tracimata dagli argini dei Tg. Una generazione di giornalisti ne è stata pioniere (i Santoro, Minoli, Gabanelli, Floris, ma anche Formigli, lo stesso Giordano provengono da lì, dalla Rai). Hanno innovato il linguaggio, mescolando informazione e intrattenimento, ma hanno anche dato voce alle persone normali e ai movimenti sociali, hanno realizzato inchieste e portato allo scoperto scandali, hanno spiegato, commosso, creato dibattito (e quindi democrazia).

Fuori dai tempi ristretti e dal bon ton dei tg è nato il giornalismo televisivo contemporaneo, coi suoi pregi e difetti. Dopo anni di contratti precari, i giornalisti della Rai che confezionano questi programmi sono stati recentemente assunti e catapultati dentro un contenitore che si chiama Direzione Approfondimento. È probabilmente la più grande redazione d’Italia: qui oggi lavorano 250 giornalisti circa, tra cui chi vi scrive.

La gran parte delle polemiche politiche sulla Rai è passata sulle nostre teste come una tempesta, e noi non avevamo neppure un ombrello. Immaginate di cambiare datore di lavoro ogni 4 anni, ogni legislatura. Di avere dei superiori sempre diversi, spesso nominati sulla base del manuale Cencelli. Io – che faccio il giornalista da vent’anni – non ho mai detto pubblicamente chi voto: chissenefrega, io do notizie, non faccio politica. I miei superiori, beh potrei dirvi (e non lo farò, tanto si sa) il partito di riferimento quasi di ognuno di loro. La Rai funziona così, e non da oggi. Anche col centrosinistra, anche coi 5 Stelle.

Noi giornalisti proviamo a difenderci: programmi storici come il mio (Report) e tanti altri restano stabili coi cambi di governo e mantengono una ampia e profonda autonomia. Altri sono più esposti alle scorribande politiche.

Ma attenzione: non è che Giorgia Meloni legga i copioni prima della messa in onda, tracciando una striscia col pennarello nero su quel che non le aggrada. Non funziona così. Le cose si muovono sotto, dove non si vede. Un servizio tagliato «per problemi di tempo», e salta proprio quella frase lì, che magari un politico poi si lamenta. Un ospite che «costa troppo» e un altro che invece lo trovi (lautamente pagato) in tv a ogni ora del giorno e della notte. E poi, «questo tema meglio non parlarne, alla gente non interessa»... E così via mentendo.

Poi c’è da parte del management politicamente schierato il tentativo di realizzare nuovi programmi più malleabili di quelli storici, e più in linea con chi comanda, meglio se prodotti da società esterne alla Rai (costa di più, ma dà meno problemi). Anche qui vale il solito manuale Cencelli. Una seconda serata a te, una prima a me e siamo tutti contenti. Senza un’idea di televisione, senza cuore, senza innovazione. Senza fare davvero approfondimento, lo stesso genere – fatto di tempi lunghi e qualità – che in reti private fa ascolti importanti e che innerva sempre di più l’offerta delle media company globali (Netflix &co). Queste scelte avvengono senza mai coinvolgerci – noi giornalisti che abbiamo tanti difetti ma siamo pieni di idee, noi che i programmi li facciamo davvero (noi, e non questo o quel ministro, parlamentare, capo di partito). E infatti gli ascolti scendono.

Ecco perché sciopererò: perché vorrei aver voce in capitolo sul mio lavoro, dato che la Rai è un’azienda pubblica. Pubblica non vuol dire proprietà privata della politica, vuol dire di tutti. Ma per rivendicarlo davvero andrebbe cambiata la Legge che regola la nomina dei vertici Rai (e l’ha fatta Renzi, non Meloni, quella legge).

Eppure noi giornalisti delle reti Rai avremmo degli strumenti legali per difenderci. Mi spiego: il contratto giornalistico e le leggi prevedono che editore e direttore di un giornale siano due figure indipendenti. Faccio un esempio: mettiamo che il proprietario di un giornale, per suoi interessi, chieda al direttore di pubblicare una notizia falsa. Beh, il direttore potrebbe rifiutarsi di farlo: decide lui cosa si stampa sul giornale, non il proprietario dell’azienda editoriale. Certo, l’editore potrà a quel punto licenziare il suo direttore, lo paga lui, ci sta.

Però attenzione: può licenziarlo, ma mai e poi mai potrà dirgli cosa scrivere, l’editore non può disporre della autonomia, professionalità e indipendenza di un giornalista, quelle non sono in vendita. Se per questo motivo un direttore fosse licenziato in tronco dall’editore e sostituito con un altro più malleabile, la redazione potrebbe riunirsi e votare la sfiducia al successore. Perché molti lettori non sanno che le redazioni votano il piano editoriale del direttore, possono approvarlo, bocciarlo, proporre modifiche. Tutto non vincolante, ma ciò obbliga il direttore a un confronto costante col corpo redazionale.

Ecco, funziona così ovunque, nei giornali, compreso quello che state leggendo, nei telegiornali della Rai o a La7. Ovunque escluso nella Direzione Approfondimento della Rai. Da noi non si vota il piano editoriale, non c’è un direttore responsabile, perché non c’è una testata registrata, come prevede la legge. Significa che se l’editore ordina, chi sta sotto esegue. E l’editore in Rai è il governo. Per questo abbiamo chiesto in tutti i modi – all’azienda, alla politica, al sindacato –  di avere una testata registrata e un direttore vero. Nessuno ci ha ascoltato.

Ma c’è un altro problema che ci rende meno liberi e indipendenti di quanto vorremo essere. Nella direzione approfondimento lavorano 250 giornalisti, ma solo 120 sono assunti regolarmente dalla Rai. Gli altri – 130 colleghi! – hanno contratti non giornalistici o di consulenza, a Partita Iva. Questi ultimi fanno lo stesso lavoro degli assunti, ma lavorano 11 mesi l’anno (per uno si devono fermare, e non sono ferie, scade proprio il contratto, non pigliano un euro). Non hanno malattia, maternità, tredicesima, e i contributi pensionistici se li pagano da soli. Guadagnano spesso molto meno dei giornalisti assunti (e i nostri stipendi non sono stellari, credeteci). E non hanno neppure il diritto di sciopero.

Questi colleghi, dinanzi agli interventi della politica, dovrebbero tenere la schiena dritta, rischiando di non essere richiamati a settembre o di essere messi a far fotocopie. Molti lo fanno – ci provano almeno – ma siamo giornalisti, mica supereroi. La Rai aveva promesso di assumerli, c’era un accordo sindacale, ma non lo sta rispettando. E il sindacato, molto radicato nei TG, non si sta esattamente strappando i capelli per difenderli.

Ecco, per questo sciopererò. Non perché sono contro questo governo e a favore dei precedenti. Non farò uno sciopero politico, ma sindacale. Che però è Politico, con la P maiuscola, perché riguarda il futuro della Rai, che è una pietra miliare della nostra democrazia.

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