Il finanziere bretone Vincent Bolloré, azionista di controllo del colosso francese Vivendi, ha incassato una vittoria, forse inattesa ma sostanziale, nella lunghissima contesa che lo contrapponeva al gruppo Fininvest – Mediaset della famiglia Berlusconi per l'affaire Premium. Ovvero la pay tv società italiana che i francesi si erano impegnati a rilevare nel 2016 ma che non comprarono mai. Un affare sfumato che si è poi trasformato in un incubo per la stessa Mediaset, che si è ritrovata scalata dai francesi i quali sono arrivati a detenere poco meno del 29 per cento del capitale delle televisioni del Biscione.

La storia

La storia è nota per chi si occupa di vicende economiche e finanziarie: Mediaset si era lanciata nelle tv a pagamento (digitale terrestre) in scia al successo del gruppo Sky in Italia. Il business però non era mai realmente decollato, nonostante gli investimenti anche nei diritti televisivi del calcio, e le perdite di bilancio sono sempre state importanti, tanto da portare in rosso per centinaia di milioni di euro lo stesso gruppo di Cologno Monzese. Nel 2016, ad esempio, il bilancio consolidato di Mediaset si era proprio chiuso con un rosso di 294 milioni di euro dovuto proprio alla mancata vendita della tv a pagamento che avrebbe alleggerito i conti e permesso il fidanzamento con Vivendi. Le due società si erano impegnate anche a uno scambio azionario per cementare questa alleanza. Al perfezionamento del contratto, infatti, Vivendi avrebbe avuto il 3,5 per cento delle azioni Mediaset e viceversa. Una quota che i due non avrebbero dovuto superare in base a questo accordo quadro sulla vendita di Premium che legava anche le due società ufficialmente.

La realtà è stata ben diversa, invece. Bolloré non ha mai adempiuto a quegli accordi e, nei mesi successivi è salito nel capitale di Mediaset fino a sfiorare il 29 per cento mentre i titoli della società italiana perdevano inesorabilmente di valore. Un calo dei corsi azionari del 30 per cento tra fine luglio e fine novembre che ha facilitato il rastrellamento dei titoli finiti in mano francese fino a diventare il secondo azionista della società e costringere la famiglia Berlusconi a rastrellare anch'essa azioni per difendersi.

Le cause

Nel 2017 le aziende del gruppo Fininvest hanno intentato una serie di cause civili a Vivendi per vedersi riconoscere un risarcimento danni derivante dalla mancata mancata vendita della pay tv Premium e per costringere Vivendi a dismettere il pacchetto azionario accumulato in modo ostile e fuori da qualsiasi accordo. In sintesi, un accumulo illegittimo. Parallelamente era partita un'indagine penale della procura di Milano su questa scalata, che si è conclusa pochi mesi fa con l'iscrizione nel registro degli indagati dello stesso Bollorè e dell'amministratore delegato di Vivendi Arnaud de Puyfontaine.

La sentenza civile ha sostanzialmente smontato le domande proposte da Finivest al collegio del Tribunale per le imprese presieduto dal giudice Angelo Mambriani (Daniela Marconi, relatrice, e Amina Simonetti a latere), stabilendo che la scalata non fu illegittima in quanto il contratto di compravendita di Premium che si è risolto a fine settembre del 2016 non fu violato. La scalata ostile, inoltre, non può essere ritenuta illegittima perché la norma invocata dal gruppo Berlusconi – il Decreto legislativo 177/2003 (Tusmar) – non è più applicabile nell'ordinamento italiano così com'è «in ragione delle statuizioni di cui alla sentenza della Corte Europea di Giustizia del 3 settembre 2020» si legge nella sentenza. Insomma, una volta scaricato l'affare Premium i francesi erano svincolati da qualsiasi accordo accessorio e avrebbero potuto rastrellare tutte le azioni sul mercato.

La sanzione

Per i giudici, comunque, il passo indietro di Vivendi rispetto all'acquisizione di Premium non è esente da critiche: la risoluzione del complesso contratto che presupponeva la vendita della pay tv, lo scambio azionario e tutte le sinergie tra le due aziende sui contenuti televisivi, contiene in sé degli inadempimenti, che sono stati sanzionati con un importo di 1,7 milioni di euro a fronte di una richiesta di circa 2,5 miliardi di euro degli italiani. Cifra che avrebbe raggiunto i 3 miliardi di euro circa conteggiando tutte le domande di risarcimento delle varie cause riunite. Noccioline, rispetto alle richieste, sulle quali la società italiana ha già annunciato ricorso in Appello.

Il futuro di Mediaset

Il tema del pacchetto azionario ritenuto ora “legittimo” è invece cruciale per il futuro di Mediaset: Vivendi, nonostante i due terzi di quel pacchetto del 30 per cento gli fossero stati congelati in questi anni, è riuscita nei mesi scorsi a bloccare la fusione del gruppo di Cologno Monzese con la consorella Mediaset Espana e il trasferimento della nuova società in Olanda, grazie a una serie di ricorsi nei tribunali di Milano, Madrid e Amsterdam. Ha anche abbattuto, con sentenza della Corte di Giustizia Ue, la norma italiana che permetteva a Mediaset di congelare la gran parte delle quote (Vivendi è anche il primo azionista di Telecom Italia con il 23 per cento dei titoli, una posizione quindi dominante nel sistema delle comunicazioni italiane) e ora questa sentenza apre scenari importanti per il gruppo Fininvest, cui non resta forse che sedersi al tavolo delle trattative con Bollorè per uscire dallo stallo nel quale si ritrova.

A latere di tutto ciò c'è il procedimento penale, che ipotizza un aggiotaggio e ostacolo all'attività di vigilanza dei vertici Vivendi nella scalata. A cavallo tra aprile e maggio, dopo l'arrivo delle ultime memorie difensive, dovrebbe arrivare la richiesta di rinvio a giudizio per i due indagati. Cambierà qualcosa ora? In procura qualche giorno fa è arrivato un esposto di Vivendi, che contrattacca sul piano penale le tesi italiane. Sarà preso in considerazione? Bisognerà attendere qualche giorno.

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