È una vecchia storia quella che racconta dei giovani senza lavoro costretti ad arruolarsi per avere uno stipendio. Per gli atleti, quella storia, è la cronaca di una situazione sempre attuale. I gruppi sportivi militari esistono ma sono croce o delizia, anomalia o eccellenza?

I sostenitori sono soddisfatti poiché la considerano “la” soluzione a un problema grave. I detrattori sono scettici poiché vorrebbero “anche” un’apertura verso altre vie. I gruppi sportivi militari e i corpi dello stato (per brevità di seguito Gsm) offrono un rimedio a una seria difficoltà, nata insieme allo sport moderno, il cui nome è “professionismo”.

In origine i padri fondatori dell’olimpismo lo combatterono strenuamente, convinti che fosse la causa della corruzione tra gli atleti dell’antica Grecia. Da allora un lungo percorso arriva ai giorni nostri scandendo la relazione tra sport e professionismo attraverso le fasi del rifiuto, della tolleranza e dell’accettazione: un percorso come una rotta marcata dalle impronte lasciate da persone, fatti, episodi.

Il “falso dilettantismo”

Le imprese di alcuni personaggi vennero cancellate. James Francis (Jim) Thorp, campione americano che dominò l’atletica alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, venne prima perseguitato (proprio così le cronache del tempo descrissero l’azione intrapresa dal Cio, Comitato olimpico internazionale, nei suoi confronti) e poi radiato a causa di presunti rimborsi spese.

Altri ci misero la faccia e quasi ci rimisero le medaglie, nel tentativo di far emergere e porre fine al “falso dilettantismo”. Fu il caso dell’ostacolista francese Guy Drut, campione olimpico nel 1976, che dichiarò: «Lascio lo sport, perché non me la sento più di vivere in un mondo dove l’ipocrisia è di norma. Il dilettantismo esiste solo nelle parole e nei giuramenti».

Alcune discipline come il tennis, giudicando intollerabili le limitazioni inferte al professionismo, si autoesclusero dalla partecipazione olimpica fino a Seul 1988, edizione dei Giochi che sancì la caduta ufficiale del divieto. E non poteva essere altrimenti, data l’imbarazzante incoerenza tra il dilettantismo preteso dagli atleti e la rincorsa alle sponsorizzazioni e alla vendita dei diritti televisivi in cui si era lanciato, ormai da tempo, il Cio.

La doppiezza non era più sostenibile anche per un’altra ragione: se i Giochi olimpici volevano mantenere l’ambizione di rappresentare il massimo spettacolo dello sport, i migliori non potevano essere esclusi, sebbene professionisti.

Lavoro senza tutele

La crescita delle prestazioni, la specializzazione precoce, la calendarizzazione fitta, la metodologia dell’allenamento via via più sofisticata, hanno portato l’agonismo a essere sempre meno compatibile con un altro impegno organizzato.

Perciò da quel 1988 che segnò il via libera al professionismo da parte del Cio, il “falso dilettantismo” iniziò una seconda vita: se prima stava a indicare il ricevere compensi per l’esercizio dell’attività agonistica, poi iniziò a indicare la pratica agonistica come attività prevalente, continuativa, retribuita e soggetta a tassazione ma priva di diritti (contratto, previdenza sociale, infortunistica, maternità). Quindi un lavoro a tutti gli effetti ma senza le relative tutele.

Da quel momento l’agonismo di vertice si distingue in una piccola nicchia di atleti professionisti che godono dei diritti dei lavoratori e tutti gli altri, falsi dilettanti, che pur svolgendo l’attività con le stesse caratteristiche dei professionisti, le tutele dei lavoratori non le hanno.

La riforma del lavoro sportivo

In Italia, chi potesse far parte della nicchia dei privilegiati lo ha regolamentato la legge 91 del 1981 che ha affidato al Coni, che a sua volta ha delegato la decisione alle Federazioni. Il risultato è stato che il professionismo esiste solo in 4 delle 48 federazioni nazionali (calcio, basket, ciclismo, golf) ed esclusivamente per le massime categorie maschili. Tutte le donne (anche la più forte e vincente) e tutti gli uomini che non praticano le 4 discipline sopramenzionate, sono falsi dilettanti.

Tra questi, i pochi campioni di sport che muovono grandi interessi economici (come tennis, volley, sport motoristici) possono trovare le risorse per tutelarsi mentre sono in attività e per il futuro post agonistico: tutti gli altri no, nemmeno se vincenti.

Lo scorso luglio, dopo 42 anni, finalmente è entrata in vigore la riforma del lavoro sportivo: l’effetto positivo è che finalmente si contempli e si voglia tutelare il professionismo quindi anche per le donne. L’effetto negativo è che tutto resta ancora attorcigliato intorno alla discrezionalità: non più delle federazioni ma dei presidenti delle associazioni di appartenenza.

Ed ecco perché i Gsm sono la soluzione del problema. L’atleta viene arruolato, inquadrato come lavoratore a tutti gli effetti ma distaccato (totalmente o parzialmente) per allenarsi e competere. Con le vittorie aumenta di grado, percepisce il normale stipendio equivalente al livello raggiunto, ha la tredicesima, la previdenza sociale, ecc. ecc.

Un escamotage per dare agli atleti le tutele necessarie per vivere serenamente l’esperienza agonistica e guardare al domani: finita l’attività agonistica, si revoca il distacco e l’atleta resta come lavoratore fino al pensionamento.

Il sistema ha dato i suoi frutti e pertanto viene descritto come l’eccellenza italiana. Tutte le medaglie olimpiche di Tokyo 2021, sono arrivate da atleti dei Gsm. Fanno eccezione i ciclisti del quartetto su pista (tre dei quali già professionisti) e tre atleti del circolo Aniene, club facoltoso di cui è stato per vent’ anni presidente (ora onorario) il numero uno del Coni, Giovanni Malagò.

Militarizzazione imposta

Alcune considerazioni a ruota libera sul perché i Gsmnon dovrebbero essere l’unica soluzione. L’ultimo dato, risalente ormai a qualche anno fa, relativamente ai costi di mantenimento del sistema dei Gsm si aggirava attorno ai 34 milioni di euro all’anno, di denaro pubblico!

I risultati confermano l’efficacia del modello militare che però rappresenta un ulteriore sottoinsieme tra chi può essere professionista e chi deve rimanere un falso dilettante: gli sport di squadra ad esempio, non vengono contemplati (fa eccezione il rugby).

I talenti vengono scoperti e cresciuti dalle associazioni di base a cui i Gsm sottraggono, insieme all’atleta, anche la possibilità di viverne la ricaduta positiva sul territorio, in termini di promozione. Il sistema Gsm pur coprendo il vuoto dei diritti durante la carriera dell’atleta poi, di fatto offre un servizio di assistenzialismo che è l’esatto contrario di ciò a cui lo sport dovrebbe ambire.

L’agonismo è la palestra di formazione per futuri cittadini le cui qualità rappresentano un valore aggiunto per la società oppure è un laboratorio di disadattati? Col denaro pubblico sembrerebbe dunque legittimo guardare anche ad altri modelli che mirino a preparare l’atleta a essere altrettanto competitivo nel mercato del lavoro: magari rispolverando i Cus (Centri universitari sportivi) e perché no, una collaborazione con i vecchi gruppi sportivi aziendali.

E che l’eccellenza sportiva si sostenga sulla militarizzazione imposta come necessità, piuttosto che come una scelta tra le varie, sa di un tempo che non vorremmo più rivivere. Ma chissà forse dovremmo rallegrarci che almeno il clero, per ora, i gruppi sportivi non li voglia aprire.

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