In un paese come il nostro composto per la maggioranza da tifosi, c’è da rischiare la pelle a sfiorare con un dubbio qualsiasi su Jannik Sinner. Soprattutto in tempi come questi, il minimo che può succedere è di essere accusati di scarsa attitudine patriottica, di inguaribile bastiancontrarietà, di patologica tendenza a cercare un problema dove il problema non c’è.

Eppure, a dopo il successo dell’altoatesino allo Us Open di domenica, secondo titolo Slam in carriera e dell’anno, un problemino esiste. Non è un punto da poco e non riguarda solo Jannik ma la sua generazione e il futuro del suo sport. Una questione che si potrebbe sintetizzare così: il tennis ha trovato in lui e in Carlos Alcaraz dei grandi attori ma manca ancora una sceneggiatura adeguata.

Basta guardare la finale di New York, noiosetta assai. Ed è stata, più o meno, la ripetizione dei match visti nei giorni precedenti. C’è un hors categorie, Sinner, capace con pochissima fatica apparente di elevare il rendimento quel tanto che basta per ricacciare indietro l’avversario di turno. Ha scritto il Washington Post che il suono prodotto dall’impatto fra la racchetta di Sinner e la pallina non ha eguali al mondo: ed è vero.

E poi ci sono gli altri: Alcaraz, Medvedev, Rune, Ruud, Fritz, Tiafoe, sua maestà Djokovic quando è in modalità combattimento (come ai Giochi) e non in quella «non vedo l’ora di tornare a casa» come in altri appuntamenti di questo 2024. Ma se Sinner è in salute, nessuno dispone dei mezzi tecnici e della strategia per diventare un suo avversario reale lungo tutto l’anno. Quando Tiafoe lo superò a Vienna nel 2021 buttando sostanzialmente la partita in caciara, Sinner se ne ebbe molto a male ma imparò la lezione.

Come si è visto nella finale di Cincinnati, oggi Tiafoe potrebbe pure presentarsi in campo vestito da clown oppure fare cose che nemmeno Connors e Nastase avrebbero mai pensato: a Jannik tutto scivolerebbe addosso come pioggerellina primaverile.

L’uniformità del gioco

Sinner è il migliore interprete del tennis contemporaneo, un Djokovic 2.0 sostiene L’Equipe. Gli altri propongono un tennis simile al suo ma tirano più piano, sbagliano di più, si spostano meno, si fanno depotenziare dai loro fantasmi interiori. Magari provano qualcosa che gli appartiene molto poco, e allora si assiste a volée colpite col manico e a dritti al volo (colpo che in verità fa difetto pure al rosso) finiti nell’Hudson. Ma se tutti giocano nello stesso modo non c’è trama, non c’è spettacolo. C’è la gioia dei tifosi ed è tantissimo: ma non basta. Ecco il problema che potrebbe avere il tennis del futuro.

La coppa a Jannik l’ha consegnata Andre Agassi. Contro Pete Sampras nel 2001 a New York giocò una delle partite più belle di sempre: un quarto di finale vinto da Pete dopo quattro tiebreak ma soprattutto con 170 discese a rete delle quali il 70% portarono il punto.

E dall’altra parte della rete Agassi si esibì in 55 risposte vincenti. La differenza crea completezza e spettacolo, una verità che trova conferma nell’eterno Fedal, il continuo confronto fra Federer e Nadal cui non riuscì mai a tenere testa il duello, seppure fisico e a tratti drammatico, fra Djokovic e Murray tanto per restare nell’era dei Fab Four.

È vero che Alcaraz sa adoperare qualche soluzione alternativa in più, tipo la palla corta o l’attacco in controtempo; ma la tendenza degli altri più o meno giovani virgulti è quella di giocare in stile Sinner, senza la diabolica capacità di diventare ultra-Sinner quando la situazione lo richiedesse. Se questo sarà il futuro, a perderci potrebbero essere l’emozione non tifosa e lo spettacolo. Non una bella prospettiva.

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I numeri in tv

Forse importa pochissimo a quei tre milioni di italiani che hanno seguito la finale di New York su Sky  e Supertennis, facendo della partita il programma più visto in Italia nella prima serata di domenica. Ma potrebbe turbare il sonno di chi gestisce il tennis. Il personaggio Sinner che domina e va oltre i guai che la vita gli ha posto e gli porrà di fronte va benissimo; come va benissimo la rivalità con Alcaraz.

Ma c’è bisogno di altro e altri. Di qualcuno che vesta i panni del Gerulaitis di una volta, un Noah, un Leconte, un Wawrinka. Qualcuno che compensi la mancanza di regolarità con qualche talento personale. Qualcuno che costringa Sinner a replicare ciò che gli permise giusto un anno fa a Pechino di battere in carriera per la prima volta Medvedev: inventarsi giocatore di volo, capace di utilizzare il serve and volley per aggredire l’avversario uscendo dai suoi schemi.

Nomi? Shelton è agonisticamente pazzo il giusto ma grezzo. Musetti è troppo poco folle e gli manca ancora una certa dose di sfrontatezza per rendere inossidabile il suo talento. Sullo sfondo c’è il brasiliano Fonseca di cui qualcosa si è già visto e apprezzato. Ma ci vuole il villain, il cattivo perfetto perché il film del tennis prenda corpo. Anche il tifo ha bisogno di epica e di emozione. I Fab Four ci hanno abituato bene.

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