Rosso, bianco, rosé, frizzante, fermo, naturale, biologico, senza solfiti, italiano, francese, californiano: la geografia dei vini è sterminata. Ce ne sono a centinaia. Da quelli siciliani ai toscani, dai pugliesi ai piemontesi, non c’è una sola regione che non abbia legato al proprio territorio e ai propri vigneti una parte della propria ricchezza.

Gli esperti lo definiscono terroir, ovvero un’area in cui l’intreccio tra zona geografica e condizioni climatiche, naturali, fisiche e chimiche permette di produrre un vino specifico e unico, identificabile esclusivamente con quel luogo e non con un altro. E in Italia, poiché le peculiarità pedoclimatiche variano lungo tutto lo Stivale, di terroir ce ne sono tanti. Chianti, Barbera, Montepulciano, Nebbiolo, Verdicchio, Barolo, Lambrusco – ancora stabilmente tra i vini più venduti –, Barbaresco, Franciacorta, Gavi, Cannonau: i vini italiani sono conosciuti ed esportati in tutto il mondo. Pensate al prosecco, si sono superate le 600 milioni di bottiglie.

E al supermercato tutti gli questi vini ci sono tutti, ma proprio tutti. Ognuno con la propria visibilità. Avrete fatto caso ad esempio che il rosato, che fino a qualche tempo fa era ai margini degli scaffali, ora svetta tra le file più visibili. Insieme al prosecco, naturalmente.

La dittatura del grande marchio

Quello dei vini, a differenza di altri reparti del supermercato, è il comparto meno soggetto alla dittatura della grande marca, del brand che nel tempo ha inglobato tutti gli altri. La parete dei vini è costellata di bottiglie dai marchi pressoché sconosciuti. Conosciamo qualche tipologia di vino, il chianti ad esempio, o qualche uvaggio come il sangiovese, sappiamo la differenza tra un Doc e un Docg, ma non conosciamo i marchi. E questa è, probabilmente, la vera forza del vino, una miriade di aziende piccole, medie e grandi, che sono riuscite a mantenere il proprio marchio, la propria storia.

Nell’epoca in cui i supermercati fanno di tutto per avere prodotti a loro marchio, è un caso eccezionale. E, infatti, la GDO sta provando a imporre il proprio marchio anche ai vini ma sta facendo più fatica del solito. Se voltate lo sguardo verso la parete della pasta, ad esempio, noterete che ormai ci sono tre o quattro grandi marchi e poi quella della catena del supermercato (Coop, Conad, etc.). Nient’altro.

Ma quale vino scegliamo, con quale criterio? Io, ad esempio, faccio la scelta più semplice e tendo a comprare sempre lo stesso tipo di vini.

Un esperimento di alcuni anni fa, invece, ha dato dei risultati stupefacenti: nella sezione vini di un supermercato inglese sono stati diffusi, a giorni alterni, un disco di una fisarmonicista francese e un altro con una marcetta dal carattere tipicamente tedesco. Analizzando i dati di vendita dei vini nelle settimane dell’esperimento, si è visto che la musica francese portava a un maggiore acquisto di vino francese, quella tedesca faceva aumentare le vendite di vino prodotto in Germania.

Più ancora della musica, un elemento di scelta è il grado alcolico, ma qui nascono i problemi. Negli ultimi anni, infatti, la tendenza è quella di bere vini meno alcolici ma il riscaldamento globale non c’è d’aiuto neanche questa volta. Gli agricoltori lo sanno bene e lo stanno sperimentando da anni, gli anticipi delle stagioni vegetative, il caldo, la siccità, stanno rendendo i vini sempre più alcolici e questo per un mercato che va nella direzione opposta, è un problema.

Anzi, una ricerca di qualche tempo fa ha confermato che, con l’aumento della temperatura, avremo stagioni di crescita sempre più brevi, con un inizio anticipato e una durata più corta delle fasi fenologiche e che questo «potrebbe influenzare la qualità del prodotto e forse mettere in discussione l’adeguatezza della regione per la coltivazione di alcuni vitigni». Insomma, tra qualche anno, ho paura che non ci stupirà di trovare sugli scaffali del supermercato sempre più vini inglesi e del nord Europa.

Oltre alla scelta individuale (la semplicità nel mio caso) e a quella indotta (dalla musica nel caso dell’esperimento), dovremo, quindi, rassegnarci ad aggiungere una scelta forzata (dai cambiamenti climatici).

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