Lo dice lui stesso in esordio dell’intervista al Corriere della Sera: Carlo Nordio si sente «ancora un magistrato». E probabilmente proprio questo è il problema, visto che ora a via Arenula indossa i panni del ministro e dunque l’approccio mentale dovrebbe essere quello del politico - seppur forse in prestito – e non quello della toga.

In questi giorni complicati di scontri e polemiche con l’Anm, tra note non firmate e parole pesanti da entrambi i fronti, strategia politica avrebbe consigliato di presidiare l’obiettivo concordato con il governo: quel ddl Nordio che contiene l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e attende l’autorizzazione del Quirinale per approdare in Senato. Invece, forse per ingenuità o forse per pignoleria, Nordio ha scelto di aprire un nuovo fronte inevitabilmente di scontro, proponendo la modifica del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. A tentare di arginare il vulcanico ministro è intervenuto pubblicamente il potente sottosegretario alla presidenza del consiglio e a sua volta ex toga, Alfredo Mantovano: «Non è in discussione, le priorità sono altre». Uno stop chiaro e tutto politico, che non è entrato nel merito della necessità o meno di rivedere il reato, il cui sottinteso era appunto quello di attenersi alle «priorità» che il governo si è dato e che sono state condivise.

Invece Nordio ha finto di non capire ed è rimasto a indossare i suoi panni di toga, intestardendosi ad argomentare, spiegare e cavillare il perchè, nel merito, il concorso esterno in associazione mafiosa vada modificato. L’unico segno di aver registrato le parole di Mantovano è stato l’esordio - «Premesso che questo argomento non fa parte del programma di governo» – e poi via con il puntiglio giuridico e una precisa disamina sulle modifiche da apportare. Eppure le regole della politica non prevedono la pura speculazione intellettuale: se un ministro affronta una questione non è mai un pour parler fine a se stesso, soprattutto su temi di questa portata.

Invece, Nordio ha mostrato di non aver colto che l’avviso di Mantovano fosse la voce di palazzo Chigi, visto che la stessa premier Giorgia Meloni ha dato segno – grazie anche alla moral suasion del Colle – di voler abbassare i toni.  

Questo apre un tema dentro l’esecutivo, che prescinde dalle idee di Nordio. Tutti erano al corrente dei suoi orientamenti in materia di giustizia e Meloni aveva accettato il rischio di un ministro molto polarizzante. A cogliere impreparato il governo, tuttavia, è il suo non voler leggere i segnali politici e oltrepassare sempre il limite a livello comunicativo, anticipando temi mai discussi e ipotizzando riforme per nulla condivise. Con precise argomentazioni di merito, ma nessuna pezza d’appoggio politica.

Non contento, nella stessa intervista al Corriere mette sul piatto altre due modifiche di sistema: «La separazione delle carriere significa anche discrezionalità dell’azione penale e facoltà dei pm di ritrattarla». Alle solite: una riforma condivisa – quella della separazione delle carriere – a cui il ministro ne aggiunge due mai discusse. Anche queste fanno parte dell’ampia letteratura del Nordio giurista e dunque nessuno può stupirsene, ma non sono nel programma del centrodestra e sono terreno fertile per una nuova polemica con l’Anm, che già accusa il ministro di voler sovvertire l’ordinamento democratico.

Se Nordio non dà segno di voler frenare la sua verve polemica e dimostra di essere molto più a suo agio nei panni del giurista che in quelli di ministro, questo approccio sta diventando politicamente molto costoso per il governo. Lo scontro con un potere dello stato come la magistratura si può affrontare se esiste un provvedimento da adottare che lo giustifica. Invece, nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa, esistono solo le parole del ministro. Per questo le dichiarazioni di Mantovano sono suonate come un avvertimento, che Nordio non ha accolto.

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