Con la legge numero 3 del 9 febbraio 2019, il governo Conte I ha introdotto il blocco della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado. Un provvedimento che poteva forse bastare a sé stesso, in quanto una delle cause della lunghezza dei processi, rimproverataci da lungo tempo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, è l’affollamento dei processi di appello e cassazione, che non ha pari in alcuno altro paese dell’Unione europea. Un fenomeno, questo, dovuto proprio al tentativo, che spesso riesce, di arrivare alla prescrizione.

La riforma Bonafede

È facile constatare che nell’assetto legislativo precedente alla legge del 2019 conveniva sempre agli imputati inoltrarsi nei gradi di giudizio. Di qui l’affollamento. Tuttavia il ministro Alfonso Bonafede ha deciso di attaccare anche le altre cause e il 13 marzo 2020 ha promosso un disegno di legge delega per «assicurare la celere definizione dei giudizi di impugnazione» (in appello e cassazione), che alcuni hanno ritenuto una condizione necessaria per impedire che il blocco della prescrizione causasse un indefinito allungamento, invece che un’abbreviazione, dei processi.

A tutt’oggi tale disegno di legge giace impantanato in commissione Giustizia alla Camera. La “riforma Cartabia” assume la forma di una raffica di emendamenti a tale disegno di legge. Il suo scopo principale è di abrogare la legge del 9 febbraio 2019, ossia, di reintrodurre, cambiandole nome, la prescrizione, in una forma piuttosto drastica: dei termini di massima durata per i giudizi di appello e cassazione, oltrepassati i quali il procedimento si estingue senza alcun esito.

Questo può sembrare mettere il carro davanti ai buoi: prima si affrontano le cause, poi si vedranno gli effetti. Ma in un certo senso non lo è. I processi troppo lenti decadono, trascinando con sé nel nulla anche l’esito del processo di primo grado, e chi si è visto si è visto: doloroso, ammettono compunti alcuni, ma necessario. Necessario a cosa? Qui entra in ballo il governo Draghi.

Draghi e il suo governo

L’Unione europea è disposta ad assisterci finanziariamente nei nostri tentativi di rendere agibile il sistema giudiziario, sia civile che penale. E per erogare i fondi vuole vedere dei risultati. Per quanto riguarda il penale, vuole una riduzione del 25 per cento nei tempi dei giudizi. È sembrato a molti che contenendo il processo di appello in due anni, e quello in cassazione in un anno, tale abbattimento dei tempi sia possibile. Dunque il tentativo, tutto italiano, di reintrodurre l’amata prescrizione che consentiva a tutti i potenti sonni tranquilli assume una dimensione europea: come non solo la ministra Marta Cartabia ma persino un magistrato serio e rigoroso come Armando Spataro hanno sostenuto, «ce lo chiede l’Europa».

Ma come si può soddisfare l’Europa? In realtà la Commissione non potrà verificare in due o tre anni il raggiungimento dell’obiettivo della riduzione del 25 per cento nella durata media dei processi penali. C’è bisogno di un segnale sostitutivo che indichi la nostra volontà di fare sul serio. Ossia possiamo offrire al posto del risultato l’impegno a conseguirlo. Ma potrà essere costituito dalle gabbie temporali previste dalla Cartabia se sono basate su aspettative irrealistiche sui tempi dei processi e sulla quota di processi che sfumerebbero sotto i nostri occhi?

Su questo negli ultimi giorni sono intervenuti dei magistrati seri e altamente competenti, a suggerire dei valori allarmanti e inaccettabili per queste percentuali, di cui Cartabia non offre alcuna stima. Non servirebbe allora la dichiarazione dell’introduzione di queste gabbie temporali solo a renderci ridicoli agli occhi di tutti?

La ministra Cartabia ha recentemente ricordato che la prescrizione di un processo era odiosa: più della sua “improcedibilità”? Il fatto è che il carro non può essere lasciato in permanenza davanti ai buoi. C’è un notevole consenso tra gli esperti, studiosi e magistrati, sulle cose da fare, e alcune sono elencate anche da Spataro in un suo articolo del 12 luglio sulla Stampa. In estrema sintesi, vanno rimosse le circostanze che rendono appellarsi una strategia dominante, che conviene cioè in ogni caso: ad esempio la norma secondo cui l’appellante non può ottenere una sentenza più sfavorevole di quella di primo grado. E vanno rese più stringenti le condizioni di appellabilità: ad esempio prevedendo per l’inappellabilità il difetto di specificità argomentativa ma anche la manifesta illogicità. Se questo basterà a frenare la corsa all’improcedibilità, che causerebbe nuova improcedibilità, nessuno può saperlo.

Si potrebbe, per dimostrarci seri, presentare all’Ue anche un buon piano di spesa. L’Unione non potrebbe aiutarci a colmare il nostro deficit di organico (di magistrati e personale coadiuvante) perché queste sarebbero spese permanenti inevitabilmente a carico del bilancio dello stato, ma a compiere degli investimenti una tantum nelle strutture informatiche e nelle procedure digitali.

Nei giorni passati molti hanno ipotizzato che la ministra Cartabia avesse previsto un regime transitorio e non volesse scoprirsi. Ma sembra che l’ineffabile titolare del ministero della Giustizia non ci avesse pensato affatto. Tuttavia pare che nelle ultime ore anche lei abbia ammesso ciò che il magistrato Luca Testaroli aveva qualche giorno fa espresso così bene: «Una riforma andrebbe fatta in relazione alle risorse che si hanno, non viceversa». Sarebbe ora disposta ad ammettere un regime transitorio, in modo che possano essere realizzate le condizioni alle quali le sue tagliole non taglino più.

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