11 settembre 1973. Quel giorno il golpe cileno spegneva l’esperienza di Unidad Popular e la vita di Salvador Allende. La repressione del nuovo regime sarebbe stata violenta con lo stadio di Santiago trasformato in un campo di concentramento.

Mesi di crudeltà, torture, stupri a opera dei militari. Centotrentamila arresti, oltre a un numero imprecisato di desaparecidos. La “sparizione” poteva avvenire in mare oppure cancellando i nomi dai registri ufficiali.

In Italia l’emozione fu profonda e proprio i fatti del Cile si rivelarono spunto per i famosi articoli che Enrico Berlinguer pubblicò su Rinascita, la rivista fondata da Palmiro Togliatti. Tre lunghe analisi destinate a segnare la strategia comunista, e non solo quella, per gli anni a seguire.

Rileggerli è interessante per più di un motivo. Lo è soprattutto alla luce della querelle su quel campo largo a fondamento di un’alternativa credibile alla destra oggi incistata nel potere del governo e dello Stato. Con una premessa, che nessuna corrispondenza o paragone è possibile tra il contesto attuale e quello di allora. Berlinguer si muoveva in un mondo completamente diverso e con una democrazia condizionata da una sovranità limitata. Il fattore K escludeva i comunisti dall’accesso a una responsabilità nel governo nazionale e rientrava a pieno titolo nella dinamica dei blocchi politico-militari e delle sfere d’influenza.

Ma proprio quella condizione avrebbe spinto il leader più amato della sinistra a declinare lo sblocco della nostra democrazia nei termini di una collaborazione tra le grandi forze e culture popolari che assieme avevano combattuto nella lotta di Liberazione e scritto la Costituzione della Repubblica.

Allora, perché a mezzo secolo di distanza una riflessione su quei contributi può essere ancora utile? Direi per una questione di metodo innanzitutto. Al fondo la riflessione di Berlinguer era sul sistema di alleanze necessarie a superare la pregiudiziale ostile alla principale forza della sinistra nell’accesso al governo. Il punto è che la soluzione indicata non si limitava a sommare soggetti e sigle di uno schieramento potenziale. Quella del segretario comunista era una lettura di processi più profondi e capaci di incidere sugli orientamenti dell’opinione pubblica e sui rapporti di forza interni e internazionali.

Il primo dei tre interventi affrontava la questione senza perifrasi: «Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni di uomini sparsi in tutti i continenti. Si è avvertito e si avverte che si tratta di un fatto di portata mondiale, che non solo suscita sentimenti di esecrazione verso i responsabili del golpe reazionario e dei massacri di massa…ma che propone interrogativi…in ogni paese».

Da qui faceva discendere un primo riferimento all’Italia: «Non giova nascondersi che il colpo gravissimo inferto alla democrazia cilena, alle conquiste sociali e alle prospettive di avanzata dei lavoratori di quel paese è anche un colpo che si ripercuote sul movimento di liberazione e di emancipazione dei popoli latino-americani e sull’intero movimento operaio e democratico mondiale; e come tale è sentito anche in Italia dai comunisti, dai socialisti, dalle masse lavoratrici, da tutti i democratici e antifascisti».

Berlinguer non ignorava, tanto meno sottovalutava, la reazione che l’abbattimento di Unidad Popular aveva determinato in una vasta opinione pubblica dell’Europa. Al contempo, coglieva il bisogno di non tacere sui rischi che un potente blocco reazionario poteva ancora produrre sulle lotte di emancipazione anche laddove sorrette da solidi moti di popolo. Era quest’ultima notazione a suggerire di affrontare il pericolo evitando errori di analisi e adeguando la strategia ai caratteri propri di «ogni regione del mondo».

E tutto ciò a cominciare dall’Italia e dalle alleanze necessarie, tema che avrebbe sviluppato meglio nell’ultimo intervento. Tra il Cile e l’Italia Berlinguer scorgeva distanze evidenti, dagli assetti sociali al regime costituzionale, nonché tradizioni e orientamenti politici, ma coglieva anche le somiglianze a partire dall’obiettivo, comune a socialisti e comunisti cileni, di una «via democratica al socialismo».

Sarebbero state quelle analogie e differenze a segnare la riflessione sui compiti storici del Pci nella nuova fase. Scriveva Berlinguer nel secondo articolo: «Noi pensiamo…che, se i gruppi sociali dominanti puntano a rompere il quadro democratico, a spaccare in due il paese e a scatenare la violenza reazionaria, questo deve spingerci ancora più a tenere saldamente nelle nostre mani la causa della difesa delle libertà e del progresso democratico, a evitare la divisione verticale del paese e a impegnarci con ancora maggiore decisione, intelligenza e pazienza a isolare i gruppi reazionari e a ricercare ogni possibile intesa e convergenza fra tutte le forze popolari».

Precisamente da quella consapevolezza si era originata una strategia delle alleanze distante da ogni suggestione autarchica o avanguardistica e la scelta di «fare i conti con tutta la storia italiana, e quindi anche con tutte le forze storiche (d’ispirazione socialista, cattolica e di altre ispirazioni democratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si battevano insieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la sua unità».

Nella nuova Repubblica il compito dei comunisti si era rivolto a consolidare quell’impianto superando ostacoli e resistenze così da far vivere il consenso più largo dentro un movimento reale e di massa. Compito che Berlinguer definiva come «il più rivoluzionario che allora si ponesse».

Nel terzo e ultimo articolo affrontava il nodo delle alleanze muovendo ancora una volta da una premessa storica: «Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai…evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista, e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche». L’esito in qualche modo era obbligato e si condensava nella formula più nota: «La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande "compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».

Finiscono così i tre articoli di Rinascita, con quella sintesi, “compromesso storico”, che avrebbe condizionato la politica del decennio. Da lì si avviava una parabola complessa fatta di slanci riformatori e bruschi attentati all’ordine costituzionale, con un Paese e un popolo incamminati verso una modernizzazione sulla quale Pasolini avrebbe scolpito giudizi e sentenze severi.

Dicevamo al principio del metodo. Non sono oggi queste tre testimonianze di una politica d’altro tempo monito sul “cosa” fare. Vanno piuttosto rilette e ripensate in relazione al “come” fare. A come tradurre i fiumi d’inchiostro e le valanghe di parole sul “campo largo” del centrosinistra in un’analisi tanto profonda quanto rigorosa del capitolo di storia dove siamo, dei caratteri di una destra neo-autoritaria, del bisogno di fondare una grande alleanza progressista oltre la sola addizione di sigle e nomi.

Se questa è la sfida, il nostro è anche il momento della chiarezza e del superamento di ogni ambiguità: per risultare vincente quell’alternativa dovrà coinvolgere e appassionare milioni di donne, uomini, ragazze e ragazzi. Un ceto politico da solo non basterà, meno che mai basteranno social e studi televisivi. Da Reggio Emilia, Elly Schlein ha lanciato una proposta di unità per battere la destra. Quest’11 settembre viviamolo anche così, come la data di un calendario civile che rammentandoci una pagina di storia, parla anche di noi e del compito che ci spetta.

© Riproduzione riservata