Avere pietà di chi non ne avuta per nessuno, oppure ripagarlo con la stessa moneta? Infliggere il giusto contrappasso a chi ha costruito la più spettacolare macchina di odio online, oppure esibire superiorità morale ora che lo stesso fango colpisce la sua dichiarata “fragilità”? Insomma come reagire alla caduta di Luca Morisi, l’ideatore della “Bestia” di Salvini che fatto del linciaggio social il suo marchio di fabbrica, quando è lui a diventare per i media il “tossico”, lo “spacciatore”, il frequentatore di “rumeni escort gay”?

Vari commentatori mettono in guardia dal rischio che la filosofia dell’occhio per occhio, dente per dente, finisca per trasformare gli oppositori di Morisi e Salvini in “bestie” loro pari. Eppure, chi si indigna di fronte alla doppia morale e al “doppiopesismo” di questi produttori quotidiani di infamia, chi ricorda la quantità di dolore personale che hanno provocato, non è per ciò una “bestia”.

Pensiamo a Giulia Viola Pacilli, che tre anni fa, per aver manifestato con slogan antifascisti, finì esposta sui social del leader della Lega.

Su Domani ha ricordato di aver trascorso mesi a ricevere insulti e minacce, di aver sofferto di attacchi di panico, di aver temuto di tornare a casa da sola. «Se penso alla faccia di Morisi oggi, costretto a leggere ovunque di sé informazioni sensibili, frasi false, vicende personali, mi viene in mente un’unica parola: karma», scrive.

L’agire politico provoca conseguenze, e la responsabilità politica per le medesime non può essere cancellata né dalla pietà umana per le fragilità personali, né dalla postura di superiorità morale adottata dagli avversari.

Eppure è giusto che da questa vicenda si tragga insegnamento per cambiare lo stile e lo linguaggio della contesa politica, per segnare uno scarto rispetto al meccanismo di produzione di livore messo in piedi da Morisi e Salvini. Come segnare questo scarto senza rimuovere la colpa?

C’è una parola e l’ha usata Ilaria Cucchi: perdono. La sorella di Stefano Cucchi ha dichiarato di perdonare Morisi per la «gratuita sofferenza» che ha inflitto alla sua famiglia, quando lui e Salvini hanno infangato il nome e la memoria del trentunenne, morto nell’ottobre del 2009 a causa del pestaggio subito da due carabinieri. «Eppure io lo perdono. Lo perdono perché mi piace pensare che abbia capito e che ora condivida la disperazione che portiamo sulle spalle. Lo perdono. Sì. Però Stefano lo hanno ammazzato».

Il perdono appare fuori posto nel lessico della politica. Eppure, una grande pensatrice come Hannah Arendt ha indicato nella facoltà di perdonare l’unico rimedio umano all’irreversibilità dell’agire. Il perdono è «mutua liberazione» dal peso del passato. È «la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata».

Perdonare, allora, non significa giustificare. Le parole di Ilaria Cucchi non cancellano la responsabilità di chi ha fatto della comunicazione politica un’arma contundente. Ma dicono che questo odio si può fermare, che possiamo liberarcene, e inaugurare un nuovo corso anche nel conflitto tra avversari.

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