Il 16 dicembre i leader dell'Unione europea si sono confrontati circa «l'attuale situazione epidemiologica nel contesto della pandemia di Covid-19 e della comparsa di una nuova variante». Questa riunione del Consiglio europeo era molto attesa. Il 14 dicembre, il ministro della Salute italiano, Roberto Speranza, aveva emanato un’ordinanza in base a cui, fino al 31 gennaio, per entrare in Italia da uno Stato Ue non basta il certificato verde digitale Ue: a chi è vaccinato o guarito è imposto un tampone negativo, a chi non è vaccinato una quarantena di cinque giorni. L’ordinanza, adottata peraltro senza il pieno rispetto del Regolamento Ue sulla certificazione verde, aveva contrariato l’Unione.  A esito del Consiglio europeo, alcuni hanno affermato che è prevalsa la “linea Draghi”. È davvero così?

Certificazione Covid

Quando fu adottato il citato regolamento, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, definì il certificato verde come «il simbolo di un'Europa aperta e sicura», che mette «la protezione della salute dei cittadini al primo posto».

La certificazione ha rappresentato uno dei più importanti risultati dell’Unione nella pandemia, garantendo il «diritto fondamentale alla libera circolazione» messo a rischio da limitazioni adottate da Stati membri all’inizio dell’emergenza.

Con il nuovo regolamento, gli Stati si sono impegnati a non imporre restrizioni alla libera circolazione ulteriori rispetto al “green pass” Ue.

Tali restrizioni possono essere disposte solo se «necessarie e proporzionate allo scopo di tutelare la salute pubblica» - qualora, ad esempio, peggiori «la situazione epidemiologica in uno Stato membro» - mediante l’attivazione del “freno di emergenza”. In questi casi, deve essere data apposita informazione alla Commissione e agli altri Stati - se possibile 48 ore prima – con l’indicazione di motivi, portata e durata delle restrizioni.

La decisione del Consiglio europeo

Il “coordinamento” tra Stati membri è il leit motiv del comunicato del Consiglio europeo. Si legge che «occorre proseguire gli sforzi coordinati per far fronte all'evoluzione della situazione». Qualsiasi restrizione dev’essere «basata su criteri oggettivi» e non deve compromettere «il funzionamento del mercato unico», né ostacolare «in modo sproporzionato la libera circolazione tra gli Stati membri».

Il Consiglio europeo chiede anche la rapida adozione della Raccomandazione sulla «libera circolazione in sicurezza», proposta dalla Commissione il 25 novembre scorso. Il contenuto della Raccomandazione, pertanto, integra le decisioni dei leader europei.

La Commissione afferma che misure restrittive adottate unilateralmente dagli Stati «possono minare la fiducia del pubblico nelle misure sanitarie, in particolare nella vaccinazione, e ciò rischia di esacerbare la situazione epidemiologica». Insomma, imporre un tampone anche ai vaccinati - come deciso da Speranza con l’avallo di Draghi - può far passare il messaggio che la vaccinazione è inutile o, comunque, non basta, alimentando non solo la confusione, ma anche l’esitazione vaccinale.

Si raccomanda, poi, un approccio coordinato a fronte di nuove varianti valutate come “preoccupanti” o “di interesse” oppure nel caso in cui la situazione epidemiologica peggiori rapidamente in uno Stato membro o in una regione, in particolare se classificati come “rosso scuro”.

Le colorazioni sono attribuite dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), che individua il livello di rischio negli Stati Ue, suddivisi per regione, e li inserisce in una mappa connotata da un codice cromatico.

Nell’ottica dell’approccio coordinato, la Raccomandazione inserisce in un sistema di raccordo anche la procedura del “freno di emergenza”, prevista dal Regolamento come iniziativa unilaterale degli Stati. A fronte di nuove varianti o di peggioramento epidemiologico, tale procedura sarebbe attivabile non solo dal singolo Stato, ma anche dalla Commissione, determinando la convocazione del Meccanismo Integrato di Risposta alle Crisi Politiche del Consiglio (Ipcr).

Al tavolo del Meccanismo, lo Stato membro o la Commissione dovrebbero illustrare il motivo per cui hanno rispettivamente attivato il “freno”. In tale sede, la Commissione può suggerire un approccio congiunto, con misure restrittive - quali test per i vaccinati o guariti oppure quarantena per i viaggiatori non vaccinati - da adottare da parte di tutti gli Stati membri nei riguardi di chi provenga dallo Stato o dalla regione connotati da un rischio elevato. L'Ipcr, a esito del tavolo, può raccomandare a tutti gli Stati l'attuazione di tali misure.

L’approccio coordinato deciso dal Consiglio, anche circa il “freno di emergenza”, rende poco fondata l’affermazione secondo cui ha prevalso la “linea Draghi”, e cioè l’unilateralità delle decisioni, avulsa da un’intesa tra Stati.

Nemmeno la decisione europea di portare a 9 mesi la durata delle certificazioni Ue – adottata dalla Commissione Ue il 21 dicembre, con validità dal 2 febbraio 2022 - si conforma alla scadenza del “green pass” italiano, com’è stato detto.

Essa, invece, segue le indicazioni dell'Ecdc: richiamo 6 mesi dopo la doppia dose, con un periodo aggiuntivo di 3 mesi per l’adeguamento delle campagne di vaccinazione nazionali. Anche in occasione di tale intervento, la Commissione ha ribadito la “ratio” di fondo: il coordinamento fra Stati, affinché si evitino misure divergenti.

La decisione italiana

Anche la decisione italiana di attivare il “freno di emergenza”, imponendo tamponi ai vaccinati o quarantena ai non vaccinati o guariti si fonda sul fatto che circola una variante pericolosa. Ma tra l’approccio indicato dall’Ue e quello italiano ci sono sostanziali differenze.

Da un lato, la proporzionalità – principio di derivazione europea – che deve connotare qualunque restrizione impone che maggiori precauzioni si adottino nei riguardi dei Paesi ove c’è un rischio maggiore, e non verso tutti i Paesi indistintamente, come fatto dal nostro ministro della Salute. Il sistema semaforico dell’Ue segue questa “ratio”.

Dall’altro lato, il presupposto dell’ordinanza italiana - serve “difendersi” da ogni paese, perché in Italia la variante circola meno, come detto da Draghi - non appare molto solido: per realizzare tale presupposto basta non cercare la variante.

Infatti, «oggi l’Italia sequenzia poco più dell’1per cento dei campioni positivi trovati per capire a quale variante del virus appartengano. Per fare un confronto, il Regno Unito ne sequenzia circa il 20per cento e la Danimarca sequenzia oltre il 50per cento» (Fonte Ispi).

Tant’è che nella citata Raccomandazione si chiede vi siano adeguati livelli di sequenziamento, e forse anche per questo Speranza ha deciso che il 20 dicembre si indaghi sulla presenza di varianti. Il ministro avrebbe dovuto farlo prima della propria ordinanza, per verificarne il presupposto – in Italia Omicron circola meno che altrove – anziché dopo.

Affrontare l’emergenza sanitaria senza la razionalità – scientifica, oltre che giuridica - che serve, dopo due anni di pandemia, crea le condizioni per un’emergenza permanente.

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