Nei giorni scorsi ha fatto discutere un’affermazione del ministro della Difesa, Guido Crosetto. «Bisogna tagliare con il machete alcune catene che bloccano lo sviluppo dell’Italia», ha detto il ministro, perché c’è una «classe dirigente nei ministeri e in ogni settore della macchina burocratica che va cambiata in profondità». «Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse, se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l'alternativa».

Le parole di Crosetto possono costituire lo spunto per approfondire, tra le altre cose, i rapporti tra politica e amministrazione, che dovrebbero essere improntati al principio di separazione, nonché per spiegare l’importanza della semplificazione normativa al fine di ridurre la burocrazia operativa.

La separazione

Il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e quelle di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti, fu introdotto nel 1993 (d.lgs. n. 29/1993). Il principio è stato poi rafforzato nel 2001, con il Testo unico sul pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001). La separazione dovrebbe segnare una netta demarcazione tra l’attività del governo, legata agli interessi di una parte politica, e l’attività dell’amministrazione che, nell’attuazione dell’indirizzo del governo stesso, deve invece agire sempre sopra le parti.

La giurisprudenza costituzionale ha affermato più volte che una netta e chiara distinzione tra le due funzioni costituisce una condizione «necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa» di cui all’articolo 97 della Costituzione (sentenza n. 304 del 2010, tra le altre).

Le commistioni

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Il principio di separazione, introdotto col virtuoso intento di distinguere tra i compiti (politici) di chi fissa gli obiettivi da perseguire e i compiti (amministrativi) di chi deve realizzarli, nella realtà è attenuato da una commistione tra politica e amministrazione, che rende talora difficile definire con nettezza i diversi ruoli e le relative responsabilità nell’ambito dei ministeri.

A tale commistione concorrono, innanzitutto, gli “uffici di diretta collaborazione”, previsti dal citato testo unico (articolo 19), connotati da un legame fiduciario tra i relativi componenti e l’organo politico che li sceglie e li porta al ministero per la durata del governo.

Tra gli altri, il capo di gabinetto, il capo dell’ufficio legislativo, il capo della segreteria, il segretario particolare ecc., i cui incarichi «cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo» successivo. Concepiti come elementi di raccordo tra il vertice e l’amministrazione, essi finiscono a volte per sovrapporsi alle strutture di gestione, oltre a concorrere a scrivere le norme di pertinenza del ministero.

La commistione fra politica e amministrazione è favorita pure dalla possibilità, prevista ancora dalla legge, di rinnovare dirigenti di vertice al cambio dell’esecutivo, sulla base della consonanza politica e relazionale con il titolare dell’organo politico; o di assegnare incarichi ministeriali a personale esterno al ruolo, assegnazione non sempre giustificata dall’assenza di competente personale interno.

Tutto questo, e non solo, ha spostato l’equilibrio tra politica e amministrazione in favore della prima. Quando il ministro Crosetto si lamenta della classe dirigente non in linea con l’ideologia dell’attuale governo, vorrebbe forse accentuare la commistione, con buona pace del principio di separazione?

I burocrati ministeriali

Un altro principio costituzionale che Crosetto dovrebbe tenere presente è quello di legalità dell’azione amministrativa: la pubblica amministrazione trova nella legge i fini della propria azione e non può esercitare alcun potere al di fuori di quelli che la legge le attribuisce. Se si vuole che i dirigenti operino in modo diverso, serve cambiare le disposizioni che ne guidano l’attività.

Detto ciò, va tuttavia riconosciuto a Crosetto che nei dicasteri sono spesso presenti dirigenti di lungo corso restii al “cambiamento”. La stabile permanenza li rende oltremodo esperti nelle questioni relative al ministero di appartenenza e, di fatto, insostituibili per le loro competenze. 

Questa burocrazia è difficile da intaccare. Ma è proprio su questa burocrazia che si misura il valore e la forza del vertice politico, al quale tuttavia non serve usare il machete: l’ordinamento prevede strumenti più efficaci.

Infatti, la legge dispone che i dirigenti pubblici siano valutati sulla base dei risultati raggiunti a fronte degli obiettivi assegnati (d.lgs. n. 150/2009). Pertanto, in caso di inefficienza, ostruzionismo o altro, può farsi valere la loro responsabilità dirigenziale, ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare (art. 21 T.U pubblico impiego).

Come ha scritto di recente Antonio Naddeo, presidente dell’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale), senza un sistema di valutazione efficace «diventa impossibile capire se ci sia una dirigenza che ostacoli o meno l’azione politica e allo stesso tempo diventa difficile per il dirigente difendersi dalle accuse di una burocrazia che rallenta l’azione della politica». Chi vuole usare il machete con certi dirigenti avrà indicato loro obiettivi da raggiungere e predisposto criteri idonei a valutarne effettivamente l’azione?

La burocrazia “difensiva”

Il machete andrebbe, invece, usato per sfoltire la congerie di disposizioni complesse e contorte che non solo imbrigliano l’attività economica privata, ma che sono pure causa di farraginosità nel lavoro dell’amministrazione, comportando tempi e oneri che bloccano il paese.

Non ci si meravigli, pertanto, se «ora ci vogliono 17 anni per realizzare un’opera pubblica», come ha detto Crosetto, mentre dovrebbero essere «quattro o cinque al massimo».

La matassa di disposizioni vigenti produce il risultato di spingere i dipendenti all’adempimento della regola piuttosto che all’ottenimento del risultato. E tale atteggiamento si traduce in una sorta di muro di gomma contro il quale spesso rimbalzano le richieste di efficienza e ragionevolezza da parte dell’utenza. E non solo.

L’intricato di norme, tra le quali è difficile individuare quella giusta da applicare, porta a condotte definite come “burocrazia difensiva”. Il dipendente pubblico, per non sbagliare, nonché per tutelarsi da azioni giurisdizionali, preferisce la cautela: così rimanda le decisioni, resta inerte in assenza di specifiche direttive del proprio superiore o in attesa dei molti pareri richiesti prima di agire e molto altro.

Se il ministro Crosetto vuole intervenire affinché nelle amministrazioni pubbliche non si perda tempo, come ha detto, serve innanzitutto sfrondare la selva regolatoria esistente, e tale compito spetta all’esecutivo. Quest’ultimo è pronto a procedere a quella semplificazione normativa, e conseguentemente operativa, che ogni governo persegue, ma che nessun governo è stato finora capace di realizzare come servirebbe?

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