Pèso il tacòn del buso” si dice in Veneto per ricordare che a volte il rimedio può fare più male della malattia. Questo adagio mi sembra definire bene il fenomeno delle cooperative di medici che sta dilagando in Italia per rispondere alla carenza di professionisti in alcuni reparti dei nostri ospedali. In particolare, ma non solo, pronto soccorso, anestesia e rianimazione, psichiatria.

Rischi e garanzie

Dei rischi legati alle cooperative ho già avuto occasione di parlare. Medici spesso privi di una preparazione specifica vengono inviati a coprire turni in ospedali (a volte di regioni diverse) senza costruire nessun legame con le équipe all’interno delle quali lavorano, senza rispondere direttamente ai loro responsabili, senza alcun limite al numero di ore di lavoro (le cronache narrano di un medico di cooperativa che aveva lavorato venti notti da 12 ore nel giro di un mese).

La prima conseguenza di questo stato di cose è l’assoluta mancanza di garanzie nei confronti degli utenti che, per esempio, quando accedono al pronto soccorso si attendono di essere visitati da un medico adeguatamente formato che agisce rispettando le direttive di un primario e i protocolli del reparto.

Aggiungo che a nessuno piacerebbe essere seguito da un medico che smonta da tre notti insonni o che è appena arrivato di corsa dall’aeroporto a seguito del suo peregrinare tra regioni differenti. La seconda conseguenza è che si introduce una differenza di retribuzione difficile da giustificare tra i medici dipendenti e i gettonisti di cooperativa, che arrivano spesso a guadagnare il doppio o il triplo dei loro colleghi, anche fatte salve le diverse garanzie che caratterizzano le due forme di lavoro.

Una delibera coraggiosa

Con una recente deliberazione, Regione Lombardia ha preso il toro per le corna, vietando agli ospedali di rinnovare le convenzioni attualmente in atto con le cooperative e mettendo contemporaneamente in capo ad Areu (Azienda regionale emergenza e urgenza) la gestione dei medici gettonisti.

I termini di questa iniziativa, che muove i primi passi in questi giorni e sarà dunque da rivalutare più avanti per quanto riguarda i suoi effetti, sono semplici e condivisibili. Si prevede innanzitutto una retribuzione oraria uniforme (80 euro lordi/ora per anestesisti e medici di Ps, 40 euro per le altre specialità) e in secondo luogo un colloquio che valuti la conformità dei titoli e la preparazione dei professionisti. Nella formulazione del bando, si potrebbe inoltre prevedere che i medici gettonisti possano lavorare in uno o al massimo due ospedali, legandoli così maggiormente all’istituzione con la quale firmeranno il contratto.

Se privato e pubblico sono oramai indispensabili l’uno all’altro in campo sanitario, questo sembra un tentativo, limitato e settoriale quanto si vuole, per affermare che il rapporto tra il Servizio sanitario nazionale e la medicina privata deve rispettare delle regole, e che queste regole le definisce la sanità pubblica.

Le paghe sono basse? Non direi, considerando che con 30 ore settimanali a 80 euro l’una un medico gettonista di Pronto soccorso guadagnerà poco meno del suo primario. Le nuove convenzioni limiteranno la libertà del medico libero professionista di lavorare quante ore vuole, se vuole e dove vuole? Può essere, ma è impensabile che gli interessi privati dei medici condizionino l’esigenza prevalente di offrire ai cittadini un servizio sanitario di qualità.

Certo, i rischi e gli imprevisti non mancano. I medici di cooperativa lombardi potrebbero per esempio spostarsi a lavorare in altre regioni, dove rimane attivo il vecchio sistema. Oppure i medici dipendenti potrebbero licenziarsi e riproporsi poi al proprio stesso ospedale guadagnando il doppio e contrattando l’orario.

Per continuare con gli adagi, però, il rischio vale la candela. In ogni caso solo riportando sotto il controllo pubblico la valutazione dei bisogni e l’assegnazione delle risorse disponibili si può pensare di avviare una risposta organica al problema.

Uno sguardo al futuro

Per chiudere, due riflessioni a latere. La prima è che fare una differenziazione nella retribuzione oraria tra le diverse specialità (anche se personalmente ritengo troppo alta la differenza che al momento intercorre tra i medici d’urgenza e gli altri specialisti) è un primo segnale di quello che potrebbe diventare un modello da trasferire progressivamente anche al mondo dei dipendenti pubblici.

Se nessuno vuole più fare il medico d’urgenza o l’anestesista, forse sarà necessario offrire un adeguato incentivo economico a questi professionisti, tenendo anche presente che hanno meno opportunità di lavorare in libera professione rispetto ad altri specialisti.

La seconda è che sarebbe bello se questa iniziativa di Regione Lombardia fosse un’occasione per spingere anche altri ad affrontare in modo organico il problema, magari discutendone in Conferenza stato-regioni. Una uniformità di comportamenti nei confronti delle cooperative aumenterebbe di molto la probabilità che regolamenti simili a quelli adottati in Lombardia siano coronati dal successo.

Sappiamo che il tema è nell’agenda del ministro Orazio Schillaci, ed è auspicabile che proprio dal governo vengano indicazioni uniformi per tutti gli assessorati regionali. Avere venti mini repubbliche indipendenti che procedono in ordine sparso in tema di sanità sta diventando sempre più intollerabile ed è potenzialmente pericoloso per la tutela della salute di milioni di italiani.

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