Dalla contestazione a Roccella fino alla manifestazione al Salone del Libro, per molti giovani è più difficile confrontarsi con docenti e politici che trincerarsi dietro urla e slogan. Per tagliare l’erba sotto i piedi dell’estremismo, dobbiamo gettare ponti di dialogo, facendo sperimentare il confronto aspro, spiegando che la strada dell’intolleranza è sbagliata. Ma possiamo farlo solo se non ci asserragliamo dietro le forze dell’ordine
Ci risiamo. Nei giorni scorsi è andato in scena il solito scontro tra sordi. Il 9 maggio un collettivo trans-femminista ha contestato la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella. Nonostante i ripetuti inviti a partecipare al dibattito, le attiviste si sono sottratte al dialogo, urlando slogan dal fondo della sala. La ministra, perciò, ha preferito andarsene accusandole di censura. Difficile non essere d’accordo con Mattarella quando dice che «mettere a tacere chi la pensa diversamente» contrasta con i principi di base della nostra Costituzione.
Tuttavia, l’interpretazione fornita da Roccella su quanto è accaduto non è convincente. La contestazione di una ministra non può essere etichettata come un atto di censura. Poiché quest’ultima è sempre esercitata da chi, in posizione di potere, non consente di esprimere opinioni diverse dalle sue. Così l’Enciclopedia Treccani definisce la censura: «controllo, biasimo e repressione di determinati contenuti, idee o espressioni da parte di un’istanza dotata di autorità». Le parole hanno un peso e vanno usate correttamente.
Una contestazione, come quella avvenuta agli Stati generali della natalità, è una manifestazione di dissenso, che può essere sì criticata per le sue modalità, ma certamente non drammatizzata o criminalizzata. Perché altrimenti ad essere messo in discussione è un altro principio democratico fondamentale: il diritto alla critica e al conflitto sociale e culturale. E quanto più si drammatizza il dissenso, aumentando la polarizzazione, tanto più si rischia di favorirne e legittimarne la repressione. Non casualmente, il giorno dopo, la polizia ha impedito ad un corteo di studenti di raggiungere lo stesso evento usando i manganelli. Per evitare, preventivamente, la manifestazione del dissenso.
Al Salone
Sabato scorso, per fortuna, al Salone del Libro di Torino è successo qualcosa di diverso. Un corteo di 200 attivisti “pro-Palestina” ha cercato di entrare senza biglietto per manifestare contro la guerra a Gaza. Sebbene ci siano stati momenti di tensione, la vicenda si è risolta senza scontri. Tra i manifestanti è affiorata una certa divisione tra chi voleva a tutti i costi sfondare il cordone di polizia e chi invece proponeva di non forzare la mano.
Alcuni editori e lavoratori del salone del libro, poi, sono usciti per portare solidarietà ai manifestanti. Tra di loro c’era anche Zerocalcare, che ha pronunciato delle frasi significative contribuendo ad allentare la tensione: «Purtroppo è successo di nuovo. Le persone che hanno a cuore la questione palestinese vengono respinte coi manganelli. Uno spazio che parla di cultura e di attualità non può chiudere gli occhi e lasciare fuori la storia con la S maiuscola». Dopo varie mediazioni, sul piazzale antistante il Salone del Libro si è tenuta un’assemblea con i manifestanti. Una delegazione di cinque di loro, però, è stata fatta entrare e questo gli ha consentito di dire: «Ci siamo fatti ascoltare».
Ci vuole coraggio e intelligenza per non fare degenerare una situazione così tesa. Su entrambi i lati della “barricata”. Perché per molti giovani è sicuramente molto più difficile confrontarsi con docenti e politici abituati a parlare in pubblico, piuttosto che trincerarsi dietro urla e slogan, magari percorrendo il sentiero rischioso della violenza.
Per tagliare l’erba sotto i piedi a chi soffia sul fuoco dell’estremismo, dobbiamo gettare ponti di dialogo verso i giovani che protestano per la Palestina, per l’ambiente, per la parità di genere, per l’antifascismo. Facciamogli sperimentare concretamente che il confronto, anche aspro, e il reciproco dissenso sono possibili. Facciamogli capire che quando scelgono la strada dell’intolleranza sbagliano.
Ma possiamo farglielo capire se prima li ascoltiamo, NON se ci asserragliamo dietro le forze dell’ordine. Per seguire questa strada, due cose sono indispensabili. In primo luogo, ci vuole una precisa volontà politica, di cui le opposizioni sarebbe bene si facessero interpreti. Uscendo dalle timidezze manifestate finora. In secondo luogo, ci vuole una qualità che questo governo sembra non possedere. Come diceva qualcuno «il coraggio se uno non ce l'ha mica se lo può dare».
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