«Invito tutti ad andare a votare» ha detto Mario Draghi nel suo molto applaudito intervento al Meeting di Rimini. La realtà, però, è che nelle conversazioni di questa strana estate la domanda “ma tu voti?” precede quasi sempre quella sul “che cosa”. E le previsioni degli istituti di ricerca confermano l’impressione: l’attesa è per l’astensione più alta di sempre.

Non è difficile immaginare cosa rende questa consultazione indigeribile a molti.

Dal lato dell’offerta, i partiti presentano tutti i vizi che ne hanno decretato la crisi degli ultimi decenni: la deriva oligarchica, l’irresponsabilità politica, il personalismo, il vuoto di visione, la convergenza programmatica che li rende – sotto diversi rispetti – indistinguibili.

Neanche il “non partito” nato per rivoltare il sistema può ormai vantare una qualche differenza. 

A ciò si aggiunga che andiamo a votare con una legge elettorale che rimette di fatto ogni decisione sulla composizione del futuro parlamento a segretari e leader, accentuando la percezione per cui i giochi sono già fatti.

Dal lato della domanda, però, cosa si aspettano dalla politica i cittadini e le cittadine? Perché avvertono – apparentemente più che in passato, data la crescita dell’astensione – una perpetua delusione?

Il libro del sociologo Vittorio Mete, Antipolitica (il Mulino), contribuisce a sfatare alcuni luoghi comuni, come quello che attribuisce il sentimento di ostilità ai partiti e ai politici principalmente alle componenti a bassa scolarizzazione o lasciate ai margini dalle trasformazioni sociali e economiche.

In realtà, l’avversione è piuttosto trasversale, e non si accompagna necessariamente all’indifferenza verso la politica, anzi: la quota di cittadini che si dichiarano interessati alla politica è cresciuta, non diminuita, negli ultimi decenni.

Cittadini più istruiti, informati e competenti, con una maggiore autonomia di giudizio sui fatti del mondo, si rivelano anche politicamente più esigenti.

Il non voto allora diventa un messaggio con cui si chiede di più, non di meno, dalla politica democratica.

Il rischio evidenziato da Mete, però, e che, in un contesto di crisi della dimensione collettiva e di forti spinte individualistiche, a questo atteggiamento esigente corrisponda una postura rivendicativa «più tipica del fruitore di servizi», e la proliferazione di pretese irrealistiche.

È allora probabilmente necessario, proprio quando così vistoso si fa il vuoto democratico, tornare a chiedersi cos’è la politica, a quali domande è in grado di rispondere.

Senza smettere di pretendere di più e di meglio dall’assai modesta offerta partitica.

L’astensione, che oggi dà forma a questa domanda, rischia però di ampliare tale vuoto. E quando il posto della politica democratica resta vacante, altri poteri – dalle forze del mercato alle componenti autoritarie – trovano lo spazio per avanzare. 

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