Lo scandalo che ha coinvolto il presidente della regione Liguria, Giovanni Toti, ripropone la questione del rapporto tra denaro e politica. I soldi a pioggia elargiti senza alcun controllo né sanzione dallo stato ai partiti fino al 2014, anno dell’abolizione del finanziamento pubblico, hanno sporcato l’immagine di questo strumento. Senza però tagliare le mani ai corrotti
L’ennesimo scandalo corruttivo che investe personaggi della destra ripropone la questione del rapporto, intricato quanto delicato, tra denaro e politica. È una storia vecchia, anzi antica. Già Cicerone si lamentava dell’inquinamento nelle decisioni del Senato, e nel Settecento il parlamento inglese aveva un ufficio apposito dove si compravano i voti degli eletti.
L’idea che fosse giusto finanziare l’attività politica e stipendiare i rappresentanti è emersa in connessione con le dimensioni di massa della politica rappresentativa. La Germania ha fatto da battistrada fin da quando, a fine Ottocento, i socialdemocratici chiesero che i parlamentari venissero retribuiti e che i viaggi per le loro campagne elettorali fossero rimborsati. E sono stati ancora i tedeschi i primi ad avere introdotto nel 1959, poi ridefinito nel 1967, il finanziamento pubblico ai partiti. Da allora questa idea si è diffusa, seppur lentamente, in tutta Europa.
L’Italia è stata una delle prime a mettersi sulla ruota dei tedeschi: nel 1974, dopo un ennesimo scandalo, i fondi neri dei petrolieri, approvò una norma che, nelle intenzioni, doveva ridurre, se non eliminare del tutto, erogazioni opache e illecite. L’opinione pubblica si è dimostrata ostile a queste norme perché aspirava a partiti finanziati soltanto dai rispettivi sostenitori. Nel 1978 il referendum per l’abolizione del finanziamento pubblico, nonostante fosse appoggiato solo da radicali e liberali, sfiorò la maggioranza, ma poi quello 1993, dopo Tangentopoli, ottenne un plebiscito, oltre il 90 per cento. Quel voto non ha chiuso i rubinetti delle erogazioni pubbliche ai partiti: grazie a una serie di leggine che hanno ripetutamente sbeffeggiato il voto referendario, i denari sono usciti a fiotti dalle casse dello stato.
Fino ad arrivare all’apice degli 800 milioni di euro, tutte le voci comprese, elargiti ai vari partiti. Solo la crisi finanziaria, gli scandali del 2011 (i diamanti della Lega) e l’offensiva grillina anti casta hanno posto un freno, prima con Monti, e infine, nel 2014, con la legge approvata dal governo di larghe intese, che ha eliminato ogni forma di finanziamento diretto dello stato. Nell’arco di pochi anni l’Italia è passata dall’essere il paese più generoso a uno dei pochissimi che non riconosce alcun contributo ai partiti. Da tutto a niente, in tipico stile italiota. Ufficialmente, ora i partiti si reggono sulle donazioni dei privati, individuali e di società – per un massimo di 100.000 euro – sul 2x1000 devoluto dai simpatizzanti, sulle quote degli iscritti, e sui contributi degli eletti, la cosiddetta party tax, che costituisce, in Italia come in altri paesi, una fonte decisiva di sostentamento finanziario.
I bilanci dei partiti italiani si sono ridotti all’osso. Di fronte all’abbuffata di denari degli anni passati, ora siamo all’astinenza. Anche troppo. Perché fare politica costa. E non è accettabile che chi è sostenuto dalle componenti più affluenti del paese abbia più risorse da immettere nel circuito mediatico-comunicativo e nelle strutture interne. La logica del finanziamento pubblico è egualizzante: fornisce un plafond minimo affinché anche i meno ricchi possano competere senza armi spuntate.
I soldi a pioggia elargiti senza alcun controllo né sanzione hanno sporcato l’immagine di questo strumento. Però la ghigliottina non ha tagliato le mani ai corrotti. Piuttosto ha reso i partiti più fragili, ancora più lontani dalla società. Introdurre una forma di finanziamento statale, sorvegliato da autorità ispettive indipendenti e con un rapporto diretto tra contributi privati e pubblici, in linea di principio, rinvigorisce gli strumenti principe della democrazia rappresentativa, i partiti.
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