Noi facciamo ricerche con Google e Bing e ci scambiamo auguri e foto di gattini con i social (Facebook, Instagram) del gruppo Meta. A lato, con TikTok, pilucchiamo come le ciliegie un video d’utente dietro l’altro.

Questa massa di ricerche, visioni e interconnessioni attira i ricavi pubblicitari su cui campa il mondo della rete, dalle massime Big Tech, che macinano miliardi a centinaia, agli influencer (modiste, videogamer, rappisti, trappisti e tipi ameni d’ogni genere) che rastrellano di regola gli spiccioli, ma talvolta (uno su centomila) scalano ai milioni.

La pubblicità ovviamente mira ai profili degli utenti e fin qui nulla da dire. Senonché i dati da cui nascono i profili non sono conservati nei paesi stessi degli utenti, ma negli Stati Uniti, il che fa a pugni con quanto la Ue, nero su bianco, garantisce in tema di privacy ai propri cittadini.

La questione si trascina da un decennio, fra accordi messi a punto tra Commissione Ue e governo Usa. Accordicchi che, per quanto denominati “Safe Harbor” e “Privacy Shield” non offrono né porti né scudi e per questo sono stati due volte bocciati dalla Corte di giustizia europea, l’ultima nel 2020.

Bocciatura accolta allora con gli applausi del sito Agenda digitale, emanazione del governo italiano, che il 20 luglio leggeva la seconda e fresca sentenza della Corte come «occasione per ridisegnare i rapporti futuri e rendere effettiva una maggiore semplicità di conservazione dei dati all’interno dei confini e per invogliare i big players a una “europeizzazione” dei loro servizi. Ecco perché, alla fine dei conti, la decisione ha una marcata valenza politica».

Parlamento vs Commissione

Ineccepibile, ma quella valenza politica pare che da allora si sia affermata solo nel parlamento di Strasburgo che l’11 maggio, a fronte di un nuovo “lodo” con gli Usa predisposto dalla Commissione, ha detto il suo No – con 306 voti e 230 astenuti – sebbene a titolo solo consultivo. Il No ha visto uniti, e in maggioranza, sinistre, Verdi e liberali; astenuti il centro dei Popolari e la destra estrema più euroscettica. Ma anch’essi, astenendosi, hanno comunque negato alla Commissione il parere favorevole.

La motivazione del parlamento, riassumendone in sostanza, è che i cittadini europei non possono “fare a fidarsi” e devono avere garanzie di ferro contro la sorveglianza di massa a nostro carico da parte dell’intelligence (le agenzie di spionaggio) Usa.

La Commissione, e in particolare la presidente Ursula von der Leyen e il commissario alla Giustizia Didier Reynders, ha invece tirato diritto contentandosi di garanzie di stagno, ovvero della istituzione, da parte del presidente Joe Biden, di un ennesimo garante, sorta di ufficio reclami per i cittadini europei che s’accorgessero (ma come potrebbero mai riuscirci se c’è di mezzo lo spionaggio?) d’essere controllati in modo esagerato. Così (rubando l’espressione recentissima di Romano Prodi) il parlamento s’è espresso da alleato degli Usa mentre la Commissione ha scelto il ruolo del vassallo.

Il commissario e il rospo

Di sicuro, a quanto risulta dalla lettera di rimostranze che l’attivista e avvocato Maximilian Schrems, estimatore di Edward Snowden, viennese e vincitore delle cause precedenti presso la Corte, ha scritto al commissario Reynders, quest’ultimo ha operato fin troppo alla svelta, sfuggendo a confronti e contributi, come a cavarsi un pensiero sul momento e nascondere sotto il tappeto l’inguardabile, «in netto contrasto – gli rinfacciava l’11 luglio l’avvocato – con l’incontro molto approfondito del suo predecessore Věra Jourová».

Non ci fa una gran figura l’attuale commissario (belga) alla Giustizia che pare messo lì apposta per ingoiare un rospo che nessun bacio può trasformare in principe. Ed è sicuro che la questione, invece di risolversi e fornire un quadro stabile a politica e affari, tornerà a breve – pare a fine estate – dinanzi la Corte di giustizia che, con ogni probabilità e per di più confortata dal massiccio orientamento espresso in parlamento, riboccerà l’accordo perché non compatibile con la Carta dei diritti fondamentali e con il Regolamento privacy del 2017.

Qui in particolare è scritto, all’articolo 58, che le singole Autorithy sono tenute a «sospendere o a vietare un trasferimento di dati personali verso un paese terzo» qualora emerga che «le clausole tipo di protezione dei dati non siano o non possano essere rispettate in tale paese». E gli Usa, a quanto pare, queste garanzie non hanno alcuna urgenza a darle.

La questione è in sé limpida. Come si spiega allora il contrasto fra l’Europarlamento e la Commissione Ue? Evidentemente con la circostanza che questa è incalzata dalla pressione del potentissimo alleato, mentre il parlamento pensa ai voti popolari e ha a che fare con un lobbysmo Big Tech meno concentrato o, chissà perché, molto più prudente.

Norme e mercato

Al di là delle persone, i problemi derivano dallo squilibrio fra quadro giuridico e quadro di mercato: il primo garantisce gli utenti in quanto cittadini di questo o quel paese; ma il secondo ci vede tutti utenti/clienti di compagnie americane.

Se esistessero analoghe compagnie europee anche gli spioni di questo lato dell’Atlantico si toglierebbero il gusto di spiare gli utenti Usa, oltre ai propri, aprendo la prospettiva che l’equilibrio del reciproco spiarsi limiti d’ambo i lati la fame di spionaggio.

Servizi a base industriale europea sono essenziali fra l’altro per garantire lo svolgersi dei lavori e lavoretti in rete che oggi si basano sui fornitori americani (per scampare ad alzate d’ingegno proibizioniste di qualche magistrato e a rivolte come fu quella dei Puffi che da noi, nel 1984, mise una massa di popolo a tutela del fresco quanto abusivo monopolio di Silvio Berlusconi).

L’utenza proprietaria

Poiché per ora non esistono grandi emuli europei delle Big Tech americane, per mettere d’accordo le garanzie costituzionali e i dati di mercato, non c’è altra via nel breve, che spostare i dati dai server americani usando il diritto dei singoli utenti a farsi consegnare, come già prevede il regolamento europeo su privacy e affini, i propri dati.

Il che però richiede che stati e Ue mettano mano al portafoglio allestendo ripostigli informatici riservati a ogni singolo cittadino affinché questi disponga dei dati come meglio ritiene, per seppellirli eternamente o per rivenderne l’uso come e a chi gli pare.

In questa ipotesi, il trasferimento dei dati da Usa ed Europa non avverrebbe tutto e tutto insieme, ma con il concretizzarsi dell’interesse dei singoli e della loro consapevolezza del problema.

Del resto l’importante è cominciare a rompere il ghiaccio monopolistico e di potenza che soffoca l’Atlantico e sul quale si perpetua inevitabilmente il ping pong fra le norme Ue (fondamentali e regolamenti) che tutelano le garanzie individuali e le pezze a colore aggeggiate fra Washington e Bruxelles per fingere che un problema in effetti non esiste.

La posta economica e sociale

Mentre è vero, come si è constatato, esattamente il contrario. E non solo perché ci sono di mezzo i diritti delle persone e i rapporti fra potenze, ma anche perché dal mantenimento dello status quo o dal suo cambiamento, nella direzione auspicata dal parlamento di Strasburgo, dipende lo sviluppo completo delle filiere industriali europee nel business (da centinaia di miliardi) della pubblicità in rete. Nonché la funzione di sponda alle locali fabbriche dei chip più avanzati, lo sviluppo di grandi capacità di calcolo e, di conseguenza la costruzione delle reti neurali d’ogni genere e la disponibilità delle masse di dati d’addestramento su cui fioriscono le intelligenze artificiali. L’ABC indispensabile alla costituzione di prospettive culturali e di lavoro capaci di attirare i talenti invece che disperderli.

La neghittosità dei media

Ultimo, ma non irrilevante: è stato minimo finora il rilievo che stampa e media in genere hanno dato alla faccenda. Comportamento bizzarro visto che un contrasto come quello manifestato nell’occasione (e con quei numeri) fra parlamento e Commissione sarebbe stato analizzato in mille modi se avesse riguardato qualsiasi altra materia.

Ma qui invece tutti a riportare estratti dal medesimo striminzito comunicato, emesso dalla Commissione per annunciare il nuovo, ma sempre strampalato, accordo con l’amico americano. Eppure questo è uno degli argomenti che più concretamente misurano la capacità dei media e della politica di tenere un occhio sul futuro spiegando e operando perché chi legge e vota capisca il suo interesse.

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