Nel 2017, all’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, la consigliera del presidente Kellyanne Conway lanciò nell’arena politica l’espressione «fatti alternativi». Che è un ossimoro, perché alternative sono le interpretazioni, non i fatti. Eppure la visione che vi è sottesa ha fatto scuola ben oltre gli Stati Uniti e la parabola trumpiana, divenendo un viatico per la moltiplicazione di versioni fantasiose della realtà da parte di leader e partiti populisti.

Anche in Italia, è in questa cultura post-fattuale, più che in sistematici propositi revisionisti o negazionisti, che sembrano trovare spiegazione i continui tentativi della destra di inquinare la storia, destabilizzare la memoria comune, screditare la scienza. Instillare il dubbio, in assenza di evidenze capaci di corroborare una verità alternativa, altro non è che un tentativo di subordinare la realtà – i fatti – al potere della maggioranza, finendo per minare la possibilità stessa di distinguere il vero dal falso.

«L’unica mia certezza è il dubbio», ha scritto Marcello De Angelis a proposito della «ricerca della verità» sulla strage di Bologna, in quello che avrebbe dovuto essere un post di pubbliche scuse per il «testo non ponderato» scritto pochi giorni prima. Nel primo post, scritto all’indomani della commemorazione del 2 agosto, l’esponente di Fratelli d’Italia e responsabile della comunicazione della Regione Lazio esprimeva, in realtà, «assoluta certezza» in merito all’innocenza di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in via definitiva. Ma ciò che conta non è la giravolta linguistica: è essere riuscito a produrre un’incrinatura, destinata con ogni probabilità a trasformarsi in una crepa, nella memoria pubblica - quella di cui il presidente della Repubblica, accusato non troppo velatamente di «mentire» - si fa interprete.

Pochi giorni prima, Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture ha fatto, da parte sua, pubblica dichiarazione di scetticismo in merito al cambiamento climatico. Anche questa, implicitamente, una risposta alla «sorpresa» espressa da Sergio Mattarella dinnanzi alle discussioni sulla fondatezza dei rischi, sul grado di preoccupazione che è giusto avere, specialmente dopo l’allarme lanciato dalle Nazioni Unite sull’«ebollizione» globale.

Si potrebbe continuare, ricostruire la serie di affermazioni dubitanti, mascherate da “libere opinioni”, che esponenti della maggioranza hanno espresso in merito a verità “ufficiali”, nei dieci mesi trascorsi dall’insediamento del governo Meloni. Sono abbastanza da far pensare a una strategia, un agire volto a infragilire i criteri e i processi attraverso cui i fatti sono accertati, inscritti nella memoria comune, utilizzati in modo affidabile per plasmare le credenze sulla realtà.

Se la differenza tra fatti e opinioni è resa irriconoscibile, se ognuno è libero di considerare vero tutto ciò che “sente” come vero, ogni affermazione, per quanto infondata, può assumere pari dignità nel discorso pubblico. E può ispirare e giustificare cattive politiche, se conta sulla forza dei numeri e sul sostegno di chi governa.

Dove però il legame con la verità si fa incerto e precario le democrazie si fanno fragili. Perché, senza un accordo su alcuni fatti fondamentali, che riguardino la storia o il presente, ciò che resta è un fluttuare di percezioni divergenti e memorie frammentate. Che rendono i cittadini e le cittadine più impotenti di fronte al potere.

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