Il pamphlet del generale Roberto Vannacci un merito lo ha avuto. Anzi, due. Ha rivelato l’esistenza di ampi settori dell’opinione pubblica attratti dal radicalismo di destra visto il successo di vendite del suo libro, e l’ampiezza della simpatia che quelle posizioni esercitano su buona parte del governo, con poche, rare eccezioni. In tutto questo, l’aspetto più preoccupante è il silenzio assordante del capo del governo.

Giorgia Meloni non è intervenuta sul caso, però per lei ha parlato colui il quale viene definito portavoce ufficioso del suo pensiero, l’onorevole Donzelli, già autore di non commendevoli piazzate contro l’opposizione in Parlamento divulgando notizie coperte dal segreto d’ufficio.

Questo silenzio, che possiamo riassumere nel classico chi tace acconsente, stupisce solo coloro che hanno bevuto la favola bella che dipinge una Meloni statista solo perché intenta a prendere un aereo dietro l’altro nella speranza, in parte realizzata, che i suoi sorrisini e il linguaggio del corpo tra abbracci e lunghe, e delicate, strette di mano scalfiscano la diffidenza nei suoi confronti.

La realtà rimanda invece alle radici inscalfibili, che “non gelano”, della cultura politica della premier. Queste radici affondano nel radicalismo di destra con tinte nostalgiche. E si riconnettono con la visione del generale Vannacci.

L’immagine della sostituzione etnica, vale a dire l’afflusso di migranti che sommerge la razza bianca, non si trova solo nelle fobie del generale al punto che considera la pallavolista Paola Egonu una aliena rispetto alla purezza delle genti italiche, ma permea anche i riferimenti della stessa Meloni.

Come scriveva nella sua celebrata autobiografia, «l’immigrazione è uno strumento dei mondialisti per scardinare le appartenenze nazionali, per creare un miscuglio indistinto di culture, per avere un mondo tutto uguale e, possibilmente, tutto fatto di gente debole». E quindi va salvaguardato il sangue italico, come proclama Vannacci, tanto da rivendicare che nelle sue vene scorre ancora una goccia di quello di Enea e Giulio Cesare, e giù per li rami. 

Già queste opinioni, come dimostrato da tanti, tra cui, magistralmente, Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera del 23 agosto, si scontrano con i principi costituzionali su cui si regge la nostra comunità politica, principi che ogni servitore dello stato in posizioni apicali è tenuto a rispettare. Ma c’è un di più che dovrebbe spingere il governo a procedere alla rimozione immediata dalle sue funzione il generale.

Per infinitamente meno - le critiche ai tagli al bilancio della difesa espresse di fronte ad una commissione parlamentare - il capo di stato maggiore delle Forze Armate francesi, Pierre de Villiers, venne immediatamente rimosso dal presidente Emmanuel Macron, proprio alla vigilia della ricorrenza del 14 luglio 2017.

Nel nostro caso, il punto dirimente riguarda il “diritto all’odio” rivendicato dal generale. Non è assolutamente accettabile che un rappresentante dello stato ai più alti livelli, e soprattutto un militare, cioè l’espressione di quel gruppo di pressione che dispone degli strumenti della coercizione fisica, manifesti adesione ad un sentimento distruttivo come l’odio.

Chi è percorso da questa inclinazione non garantisce la sicurezza della nazione e il rispetto della legalità repubblicana. Il suo posto è l’immediato collocamento a riposo. Chi vi si oppone e ciancia di libertà di pensiero ha perso, o non ha mai avuto, una idea di cosa sia un regime politico libero e democratico, e di quali responsabilità e limiti imponga l’indossare una divisa a difesa di tutti cittadini, anche quelli di pelle scura e di variopinti orientamenti sessuali. Un generale che orgogliosamente odia tutto questo costituisce una minaccia per la concordia della comunità nazionale. 

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