Battersi per un mondo a “Fame Zero” entro il 2030 è una delle imprese più nobili del nostro tempo, e infonde un certo ottimismo vedere i 160 paesi presenti al recente vertice Fao impegnati per tale obbiettivo.

Contrastare le disuguaglianze alimentari in un pianeta in rapido cambiamento non è certo impresa facile: ce lo ricorda da ultimo il blocco russo all’accordo sull'esportazione del grano.

Tuttavia, per quanto le proposte interessanti non manchino, appare chiaro che da Roma non sia partito un progetto veramente capace di aggregare stati e istituzioni al fine di realizzare i buoni propositi descritti dal titolo. Mani tese ai paesi in via di sviluppo, sicurezza alimentare e dieta mediterranea potrebbero non bastare.

Eppure “Fame Zero” sarebbe la campagna ideale per una sinistra che intenda rianimare sia il suo spirito internazionale sia un ruolo attivo su un tema storicamente e culturalmente a lei vicino.

Pensateci: il cibo è strettamente connesso al tema della sostenibilità ambientale e sociale ed è, soprattutto, il bene potenzialmente più egualitario che esista.

A livello individuale possiamo accumulare solo il quantitativo che riusciamo a conservare ed è l’esatto opposto di un prodotto voluttuario: facoltosi o indigenti, tutti dobbiamo nutrirci e non possiamo farlo oltre la capienza del nostro stomaco. Il cibo è il bene più “comunista” che esita.

Per di più è anche un bene universale a disposizioni di tutti. O almeno potrebbe esserlo: in base a numerose ricerche, ogni anno produciamo calorie per sfamare un miliardo di persone in più di quelle che abitano il nostro pianeta.

È chiaro che a fare la differenza è l’uso che se ne fa: i rapporti di forza tra le nazioni, le incongruenze di mercati e logistica e i diversi stili di vita segnano logiche distributive che sbilanciano i costi e creano il paradosso dello spreco. Ed è proprio da qui che la sinistra potrebbe avanzare un progetto politico rinnovato: non dalla produzione né dal consumo, bensì dall’intento di destinare il cibo che serve dove serve per un nuovo “comunismo alimentare globale”.

In questa accezione “comunismo” assumerebbe un significato del tutto inedito: non più una lotta contro la proprietà privata, ma un progetto radicale di equità umana, incentrato sul più fondamentale e inalienabile dei bisogni. Battersi contro la proprietà esclusiva del cibo significherebbe opporsi all’idea di una sovranità alimentare trasformata in sovranismo, dove il mito del “io mangio ciò che produco” finisce col tradursi in “ciò che produco, lo mangio solo io”, negando in questo modo la possibilità di condividere la risorsa più vitale di cui disponiamo.

Non è un caso che un primo comandamento etico-religioso comune all’umanità sia proprio quello di “dar da mangiare agli affamati”. Dare, appunto, non “stare a guardare”, sperando per il meglio. Un precetto che da Montesquieu in poi è diventato un diritto inalienabile garantito dallo stato, non più una concessione di qualche generoso sovrano. Ora è tempo di fare il passo successivo e trasformare questo imperativo politico in un vero progetto, altrettanto politico, ma molto più ampio.

È bene infatti ricordare che «dare a ciascuno secondo i suoi bisogni» non è né un pericoloso moto sovversivo né un mero un atto di carità: il saziamento dello stomaco è il passo necessario verso il nutrimento spirituale, quella “fame di sapere” che è precondizione per la realizzazione individuale e la partecipazione sociale di ogni persona.

Solo eliminando il bisogno si alimenta anche il sogno: quello di un’esistenza pienamente soddisfatta che vuole saziarsi di qualcosa di più.

Forse è anche per questo che è così difficile realizzare questa visione: in un mondo che potrebbe sfamare tutti, qualcuno sa bene che chi non ha da mangiare non ha tempo per pensare. Ed è precisamente per questo motivo che la battaglia universale per un mondo senza fame non può essere ignorata proprio da chi si è sempre battuto per dare voce agli affamati.

© Riproduzione riservata