Non c’è altro luogo sulla Terra al pari del continente africano capace di smascherare i paradossi e le incertezze che attanagliano la società occidentale. In queste settimane, i golpe in Niger e Gabon hanno richiamato l’attenzione verso un mondo di dinamiche e interessi che il più delle volte fatichiamo a comprendere, salvo poi riconoscere che molti di essi sono frutto di scelte quantomeno improvvide adottate nelle nostre capitali.

Una consapevolezza scomoda, spesso trascurata; al più ovattata da quella parte della nostra coscienza che non smette di anelare un’Africa democratica, prospera e padrona delle sue risorse e del suo destino.

Convinzioni naïf

È un disagio morale che esce dalla logica del realismo per entrare nei contorni naïf della nostra esperienza, elevata a modello universale di società ideale. Quella che auspichiamo è un’Africa figlia del trionfo della democrazia liberale, quella stessa democrazia che abbiamo salutato come la “fine della storia”, salvo poi accorgerci che la trama è tutt’altro che conclusa.

Un errore aggravato dalla convinzione che il nostro percorso sia la sola direzione possibile verso il progresso, ciechi al fatto che, al di fuori dell’occidente, il mondo è ricco di “storie” parallele e cariche di pari dignità.

Immaginare di proporre ad “altri” di camminare lungo la nostra strada al fine di procedere più speditamente verso la meta del bene comune è un pericoloso esercizio di presunzione: in Europa ci sono voluti secoli di guerre, rivoluzioni e genocidi prima che le nobili idee di Socrate e Voltaire acquistassero senso compiuto.

Il prezzo pagato è tuttavia lontano dal porci in una posizione di superiorità morale. Non tanto per la quantità di dolore che ci ha imposto, presumibilmente non superiore a quello conosciuto nel continente africano, bensì perché l’esperienza di quelle vicende è il risultato di un retaggio distinto che non possiamo impiantare lungo il tragitto altrui.

Strategie e dilemmi 

Sembrerebbe allora che l’unica cosa da fare affinché l’Africa possa vivere in pace, sia proprio “lasciarla in pace”. Potrebbe rivelarsi una buona strategia, se non fosse che genera ulteriori dilemmi: come non sentire il peso della responsabilità di aver contribuito noi stessi a privare della pace il continente? E come ignorare che la nostra stessa cultura ci impone di ascoltare le richieste di aiuto che parti di quel mondo rivolgono a noi? Certo, non possiamo negare cibo e assistenza, ma possiamo essere così sordi da ritenere libere di scrivere la propria storia anche quelle realtà che negano i diritti civili o si dichiarano avverse all’idea di democrazia?

Dilemmi che potremmo superare se incominciassimo a prendere sul serio quel grido di rivendicazione che da decenni reclama “l’Africa agli africani”, considerandolo come un approccio culturale ancor prima che come un progetto politico: un contesto in cui ogni iniziativa di dialogo e relazione non può che fondarsi su un reciproco riconoscimento della dignità delle identità coinvolte, nella consapevolezza che nessuna società può ritenersi migliore, ma ognuna da sé deve poter scegliere se seguire o meno un’orma impressa sul cammino di un altro.

Nell’ascolto reciproco, sarà la narrazione dei risultati del nostro percorso a permetterci di far emergere i valori che per noi restano essenziali. Ma invece di esportare la nostra esperienza, come abbiamo fatto per secoli, è arrivato il momento di testimoniarla.

Se un giorno quei paesi, oggi controllati da generali in divisa, saranno governati da cittadini liberi e sovrani, sarà magari perché nella nostra testimonianza avranno individuato e accolto un’impronta ritenuta coerente con la propria storia. Ma dobbiamo anche saper accettare che giungano a mete diverse per percorsi diversi. Perché se cadono al suolo non possiamo non sentirci investiti dal dovere di aiutarli a rialzarsi, ma dobbiamo fare attenzione a non proporre un “passaggio”, all’apparenza conveniente, che finirà invece per portarli lontano dal loro personale tragitto.

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