È difficile prendere le misure del M5s perché nessun altro partito ha viaggiato così tanto sull’ottovolante della politica. Su ogni aspetto. Su quello del consenso elettorale, delle visioni ideali e programmatiche, della strategia politica e della classe dirigente.

Se si parte dal 2007, data di lancio del Movimento con la manifestazione del V-day a Bologna, non è rimasto nulla o quasi di quel profilo iniziale. Nemmeno il fondatore ha sempre e costantemente mantenuto la guida del partito. Dopo aver riassunto in sé l’alfa e l’omega del Movimento grazie alla sua lunga attività politico-agitatoria fuori dai recinti consueti della politica, Beppe Grillo ha evitato di istituzionalizzarsi in cariche formali e di entrare in parlamento.

Prima, nel 2014, ha lasciato le redini a un comitato di cinque giovani deputati, poi nel 2017, col nuovo statuto, è stato eletto un “capo politico”, Luigi Di Maio, e infine, alla guida del governo, è andato l’avvocato del popolo, Giuseppe Conte. Ovviamente Grillo è rimasto il garante, o “l’elevato” come si autodefinisce con consueta ironia, il ché significa che, a ogni tornante, la sua parola pesa in maniera decisiva.

Del resto, il governo Draghi è nato solo grazie al suo convinto appoggio (da cui le frizioni con Conte). L’imprinting carismatico del partito è stato quindi attutito da una serie di mosse adottate dallo stesso Grillo, fino al punto di astrarsi per lungo tempo dalla scena politica. Con il risultato però di non aver guidato lo sviluppo di una classe dirigente.

La decisione iper-democratica di non adottare alcun filtro nella selezione delle candidature – e solo nel 2018, all’uninominale, è stato effettuato un secondo screening dal capo politico di allora – ha portato in parlamento una quantità di persone dai profili politici spesso indefiniti e dalle competenze spesso inadeguate.

L’avvocato domina

L’assenza di una guida, di una autorità riconosciuta, poi ricondotta per contrappasso a meccanismi interni autoritari e draconiani, ha provocato fuoriuscite, rotture e soprattutto un caleidoscopio incontrollabile di posizioni che spaziavano dal bizzarro all’irricevibile.

La classe dirigente del M5s è passata, quindi, attraverso una serie di setacci negli ultimi dieci anni, tra cui anche quello del vincolo dei due mandati, per cui pochi possono vantare una esperienza politica continua e significativa. Alla fine, usciti verso strade opposte, i due dioscuri di un tempo, Di Maio e Alessandro Di Battista, e rintanato nel suo ridotto ligure Grillo, domina la scena Conte. Dietro di lui, il vuoto o quasi.

A questo turnover nella classe dirigente va associata una serie di mutamenti nei riferimenti ideali e nelle alleanze politiche. Dal rifiuto di ogni contatto inquinante con qualsiasi forza politica nei primi tempi il M5s è passato alla sintonia populista con la Lega, per approdare poi all’abbraccio con la sinistra e infine con il tecnocrate Draghi. E sul piano ideale e programmatico: il M5s ha oscillato da una feroce, robespierriana antipolitica alle pratiche parlamentari più disinvolte, dall’ecologismo radicale al laburismo del reddito di cittadinanza e del salario minimo.

Il rapporto con il Pd

È proprio quest’ultimo tratto che sembra connotare oggi il M5s: una formazione che si rivolge alle componenti più deprivate economicamente e più marginali spazialmente, tanto in senso geografico (Mezzogiorno) quanto territoriale (periferie).

Il futuro del sistema partitico, e dell’opposizione, dipende dalla convinzione con la quale i pentastellati intendono percorrere questo sentiero, che può portare a un rapporto cooperativo con il Pd grazie a una divisione del lavoro tra chi si occupa delle componenti operaie sindacalizzate e chi raccoglie le domande di quelle più tangenziali al mondo del lavoro; ma può diventare anche aspramente competitivo se uno dei due si muove verso il terreno di caccia dell’altro.

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