La discussione sull’autonomia differenziata si sta concentrando sul peggioramento degli squilibri territoriali che, con ogni probabilità, ne deriverebbe. Da qui l’attenzione sulle modalità di finanziamento delle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e sulla necessità di salvaguardare chi risiede nelle altre regioni determinando i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che devono essere garantiti in tutto il paese.

Sono certamente temi cruciali. Il desiderio di ottenere risorse finanziarie aggiuntive, trattenendo quote maggiori del gettito delle imposte statali raccolte nel proprio territorio, è il movente iniziale di tutta la vicenda e, infatti, scorrendo il dettaglio delle richieste ve ne sono numerose che implicano oneri aggiuntivi rispetto alla spesa attuale: dalla costituzione di fondi sanitari integrativi regionali all’istituzione di una cassa integrazione regionale e di forme collettive di previdenza integrativa (solo per citarne alcune). Chi ha parlato di secessione dei ricchi non ha, insomma, torto.

Il rischio della frammentazione

C’è però da chiedersi: se non ci fosse una questione di equità, cadrebbero le obiezioni alle richieste di autonomia differenziata, che a quel punto in un mondo ideale senza squilibri territoriali dovrebbe coinvolgere tutte le regioni? La risposta non può che essere negativa: le richieste delle tre regioni sono talmente numerose e pervasive da produrre una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche.

Lasciando da parte il tema della richiesta più importante (l’istruzione) che meriterebbe una trattazione separata, per fare alcuni esempi, quali conseguenze avrebbe la competenza legislativa regionale nella materia delle “grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione” o nella “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”? Materie per le quali sarebbe da interrogarsi, semmai, sull’adeguatezza della dimensione nazionale.

E ancora, l’acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale, l’approvazione delle infrastrutture strategiche anche di competenza statale, le competenze statali in materia di immigrazione o la definizione dell’equivalenza terapeutica tra medicinali? Quello che sorprende è che in un processo iniziato cinque anni fa, nel febbraio 2018 con il governo Gentiloni, finora nessuno abbia chiarito cosa giustifichi richieste del genere.

Nelle tre intese sottoscritte nel 2019 dai presidenti delle regioni e dall’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte compare sempre la stessa formulazione: «L’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo». Nessuna specificazione, nient’altro. 

Il problema dei Lep

Gli schemi di legge quadro proposti dai ministri per gli affari regionali che si sono succeduti in questi anni (governi Conte 1 e 2, Draghi e Meloni) su questo sono silenti. Tutti affrontano, in qualche modo, il tema della definizione dei Lep, cosa opportuna e necessaria, ma che, tuttavia, non risolve le questioni in ballo (equità e frammentazione delle politiche pubbliche) e sembra piuttosto una foglia di fico.

Innanzitutto, i Lep riguarderebbero, oltre alla sanità per la quale sono già definiti da tempo (denominati Lea, livelli essenziali di assistenza), un numero limitato di materie (istruzione, assistenza, trasporto locale). La loro definizione non sarebbe poi risolutiva per i livelli di spesa. L’esperienza della sanità lo dimostra: la spesa non è la somma del costo dei Lea (peraltro non ben definito) ma, come è opportuno che sia, è determinata a monte nella programmazione del bilancio pubblico (insomma, il totale che si può spendere e non la somma di quanto si dovrebbe per garantire effettivamente i Lea).

Il ministero della Salute ha il compito di monitorare il rispetto dei Lea ma, a giudicare dalla nostra esperienza di cittadini, non in modo abbastanza stringente: ad esempio, la durata del tempo di attesa per un esame di media complessità è superiore a un anno quasi ovunque.

Quali materie trasferire

Serve, invece, una legge quadro che affronti la sostanza della questione, interpretando l’articolo 116 della Costituzione (quello su cui si basano le richieste di ulteriore autonomia). L’interpretazione attuale, desumibile dalle intese già raggiunte, di fatto comporta la trasformazione di tutte le regioni che lo vogliono in regioni a statuto speciale, con un procedimento la cui costituzionalità è molto dubbia.

Occorre, invece, circoscrivere l’ambito delle materie trasferibili e chiarire la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione. Insomma, cosa è trasferibile e in quali casi. Quello che non è accettabile è cambiare natura e forma dello stato in ordine sparso senza un disegno complessivo. Per inciso, è un tema di cui dovrebbe discutere il congresso del Pd, forza politica che ha contribuito (a iniziare dalla prima intesa siglata dal governo Gentiloni, che ha aderito all’impostazione onnivora delle tre regioni) a questo pasticcio.     

Parallelamente, occorre completare il disegno dell’articolo 117, con la determinazione da parte dello stato dei princìpi fondamentali per le singole materie. È un passaggio decisivo – più della definizione dei Lep - per evitare la frammentazione delle politiche pubbliche.

Se fosse stato compiuto a tempo debito avrebbe impedito eccessi di creatività nel disegno dei modelli di servizio sanitario regionale di cui abbiamo avuto prova nella fase acuta della pandemia (cui si sta cercando di porre rimedio con il Pnrr, si veda il riparto dei fondi dell’investimento nell’assistenza domiciliare, di cui la Lombardia è il maggior destinatario). E può diventare l’occasione per una riflessione seria sul ruolo delle regioni.   

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