A giugno si vota per il parlamento europeo. I contrasti sulla Ue fra Partito democratico e M5s attirano l’attenzione della stampa “allineata e coperta”, che ignora quelli fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la Lega per Salvini premier.

Questi attacca la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, con cui Meloni va d’accordo; lo affiancano gli anti-Ue del Rassemblement national di Marine Le Pen e i para-nazisti di Alternative für Deutschland. C’è da chiedersi quanto siano davvero profonde le differenze fra FdI e Lega.

La Ue, con 450 milioni di cittadini, è la più grande entità politica retta da istituzioni della democrazia liberale; ha la coda di pretendenti all’ingresso. È ricchissima – seconda o terza economia mondiale per Pil – ma del tutto inerme. Senza aiuti esterni non reggerebbe a un’aggressione come quella russa in Ucraina; sarebbe folle continuare a confidare negli altri, Usa inclusi.

Divisi alla meta

Dopo l’uscita del Regno Unito, contrario alla “unione sempre più stretta” del Trattato di Roma (1957), la Ue deve riprendere subito quella strada, per non finire come la nostra penisola, ove per secoli si disputò “il palio d’Europa”.

Come l’Italia, pura espressione geografica, era premio a chi ci veniva a guerreggiare, la Ue spetterebbe al vincitore di questo nuovo palio, o sarebbe spartita in una nuova Yalta in caso di pareggio. Incapaci di batterci uniti, finivamo vassalli dell’uno e dell’altro. Seppero invece unirsi le città dei Paesi Bassi contro il dominio spagnolo nel ‘600; da qui nasce l’Olanda.

Vide bene dove portano le nostre divisioni Luigi Einaudi; ne riporta una riflessione sul Corriere Francesco Giavazzi (da Lo scrittoio del presidente, 1954): «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare.

Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani alla fine del Quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi».

Il primo presidente della Repubblica dipinse nitidamente il vuoto del potere al cui apice stava; la tragedia di due guerre gli inibiva i toni sfumati.

C’era una volta Meloni

Perché Meloni, infastidita dal rivale Salvini, non se ne distanzia? Senza i 66 deputati leghisti il governo cadrebbe, ma non finisce qui. Contro la Ue essa era ben più aspra di Salvini solo due anni fa; cambia spartito perché altrimenti gli italiani la mandano dritta a casa.

Si tiene le opzioni aperte per “vedere a giugno l’effetto che fa”. Il problema è, più che Salvini, soprattutto Meloni, lontana quanto lui dal pensiero di Einaudi. I suoi grandi alleati sono il filorusso eurofobo Viktor Orbán e il premier inglese Rishi Sunak, fautore della Brexit.

Esibisce, ricambiata, vicinanza alla popolare von der Leyen facendole balenare il ritorno alla guida della commissione, sostenuta dai suoi Conservatori e riformisti anziché dai socialisti.

Intanto l’ambigua presidente, non più certa di riconferma, fa il doppio gioco; se concorda con Meloni non può apprezzare la scelta di Mario Draghi per la sempre maggiore integrazione europea.

Anche se cura molto la sua versione export, Meloni non convince all’estero, dove leggono i nostri media e sanno cosa fa qui. Dubitano che l’Italia, paese fondatore, sostenga le riforme dei trattati necessarie ad affrontare le sfide e gli enormi investimenti preclusi agli stati.

Permetterà alla Ue, magari a 35, di lavorare a cerchi concentrici o, in nome dell’Europa delle patrie, s’opporrà rendendola ingovernabile? Gigante economico ma nano politico e militare, la Ue è a un tornante storico; carico di rischi se perderà l’occasione, ma anche di opportunità per chi, sulla linea di Einaudi e Draghi, avrà il coraggio di afferrarle.

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