La politicizzazione dell’Unione europea è sempre più evidente. Un tempo, di Europa ne parlavano solo gli esperti o gli entusiasti. Poi sono venuti gli scettici a fare grancassa sulle vicende bruxellesi. Ora è un tema da prime pagine.

Le elezioni del parlamento di Strasburgo sono diventate qualcosa di diverso da un grande sondaggio sugli umori dell’opinione pubblica: esprimono (anche) una scelta precisa in merito al futuro dell’Unione. I temi del cambiamento climatico, della transizione energetica, della conversione delle auto da motore a scoppio a elettrico, per fare alcuni esempi, spopolano persino nei talk show.

Le decisioni che si prendono su questo teatro non sono più tecniche, al riparo dai riflettori mediatici. Il salto di qualità avvenne nel 2019 quando, alle elezioni per il parlamento europeo, venne introdotta la figura del candidato presidente della Commissione.

Questa innovazione innalzò il livello di competizione tra i vari gruppi parlamentari e politicizzò ulteriormente le dinamiche interne all’Unione. C’è però chi non ha capito il passaggio di clima. Si tratta di chi è sempre rimasto estraneo agli ambienti comunitari, perché era immerso in una cultura politica alternativa, intrisa di nazionalismo e sovranismo, e guardava quell’ambiente da lontano, con misto di diffidenza e disdegno.

Una chiara maggioranza

Anche per questo Giorgia Meloni si è infilata in un vicolo cieco negando il proprio voto alla conferma di Ursula von der Leyen. Ha ignorato che la Commissione e il parlamento europeo viaggiano ormai su binari politici: devono poter contare dell’appoggio di una chiara maggioranza.

Popolari, socialisti, liberali e verdi sono il perno della nuova Commissione. E saranno queste formazioni a dividersi le posizioni apicali nell’amministrazione comunitaria, nonché le varie commissioni parlamentari. Chi è fuori raccoglie le briciole.

La Commissione ha logiche diverse, più nazionali: ogni paese nomina un rappresentante e, ovviamente, all’Italia spetta nominare il proprio. Ma non entra automaticamente in carica perché deve avere il consenso del parlamentari europei. Non sarebbe la prima volta che un candidato viene messo alla porta.

Raffaele Fitto è la miglior carta che FdI potesse esprimere dai suoi ranghi. Competenza e una storia personale distante all’estremismo di destra offrono garanzie. Porta però il peso di rappresentare un partito di antica e rocciosa tradizione euroscettica che, per di più, ha rinverdito tale tradizione votando contro von der Leyen. E il programma da lei presentato.

Fermare le destre

Meloni sottovaluta la diffidenza che liberali, socialisti e verdi hanno nei confronti di un partito che continua a gloriarsi della fiamma almirantiana e a mantenere amicizie pericolose. La loro porta di fuoco verso FdI ha anche fini interni, per contrastare l’arrembaggio delle destre radicali in atto nei rispettivi paesi.

Cedere a un rappresentante della destra indebolisce il cordone sanitario: dimostra che in fondo anche con questi si possono fare accordi. Questa rigidità non è condivisa da tutto il Partito popolare europeo. Tuttavia, non basta il frenetico agitarsi del presidente del Ppe, Manfred Weber, a favore di Meloni per modificare un assetto politico che si poggia sia sul voto popolare di giugno che ha confermato una maggioranza di centro-sinistra a Strasburgo sia su convergenze programmatiche di questa maggioranza su temi centrali.

Per di più, nel momento in cui due europeisti italiani di vaglia come Enrico Letta e Mario Draghi hanno presentato ambiziosi programmi di riforma e rilancio per una «ever closer union» (questo il motto dell’Ue) , sarebbe curioso che venisse data luce verde all’esponente di una partito che esprime visioni contrarie al limite del sovranismo e dell’euroscetticismo.

Non è in questione il profilo personale di Fitto, ma la formazione politica che rappresenta. Meloni può uscire dall’angolo e rimediare ai suoi errori di valutazione con una scelta forte, che cambi lo schema di gioco: staccarsi dal gruppo dei Conservatori dimostrando così disponibilità a collaborare con la nuova commissione.

Una sconfessione pubblica e palese delle decisioni precedenti in cambio di un avvicinamento al core europeo. Senza una iniziativa così coraggiosa, la candidatura di Fitto, nobilitata da una vicepresidenza esecutiva, rimane appesa a un filo. La presidente del Consiglio può agire per evitare la marginalizzazione dell’Italia. A meno che, con la sponda del suo amico Weber, non punti proprio a creare un conflitto nella attuale maggioranza Ursula che divida i popolari da tutti gli altri. Con la conseguenza di creare una crisi istituzionale e seppellire i progetti draghiani e lettiani di rilancio.

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