Da molti anni, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo» ha scritto Giorgia Meloni nella sua lettera al Corriere della sera del 25 aprile 2023.

Non essere “nostalgici” del regime non equivale però a essere antifascisti. La inconcludente critica rivoltale di non volersi dire antifascista mostra di non comprendere il progetto della nuova destra. Una critica che resta spuntata di fronte a Meloni che gira l’accusa contro i suoi critici accusandoli di usare la categoria dell’antifascismo «come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico; una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce, che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto».

L’antifascismo non è il fondamento della democrazia italiana, ma un’«arma di esclusione»: dopo il 1949, il posto che era dei fascisti nel Ventennio è stato preso dagli antifascisti. Chi è antifascista è come chi è fascista: e se non si è “nostalgici” del fascismo non si può esserlo dell’antifascismo. Questo è il tema di un capitolo che comparirà nel libro scritto insieme a Gabriele Pedullà, Democrazia afascista in corso di pubblicazione presso Feltrinelli.

Antifascismo rosso

Meloni rivendica di non aver alcun dovere di dirsi antifascista per essere democratica. La democrazia deve essere afascista. La dichiarazione di «incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo» ci assicura che l’obiettivo della destra italiana non è ridarci il fascismo del pre 1943. Molto più radicalmente, mettere in circolo l’idea che anche la democrazia antifascista deve dichiararsi sepolta insieme al regime fascista.

La premessa ideologica di questo ragionamento è chiara e ci fa capire che per la tradizione fascista, l’antifascismo ha un solo colore: quello rosso. Del resto, il fascismo delle origini scatenò la propria furia contro socialisti e comunisti, che Meloni rubrica sotto «comunismo», un termine comprensivo dell’ideologia della lotta di classe in tutte le sue varianti.

Sepolto il regime fascista, l’ideologia antifascista è diventata autonoma dal comunismo («forza anti-sistema e rivoluzionaria»); è diventata «antifascismo d’ordine», «cane da guardia» dell’ordine costituito, utile per escludere la destra dal gioco politico.

Nemico ideologico

E qui troviamo alcuni capolavori retorici di rovesciamento: il comunismo, al quale Meloni assegna una dignità come movimento anti sistema (speculare all’anti sistema della destra radicale), nel corso della vita repubblicana ha perso la sua originaria identità ed è diventato null’altro che antifascismo.

Il quale è il vero nemico ideologico della destra che governa oggi. Occorre dunque liberare la democrazia di quella «pregiudiziale» e rivedere la Costituzione del 1948. Esattamente come aspiró a fare Giorgio Almirante a partire dai primi anni della Repubblica: spazzare via la democrazia parlamentare, il retaggio dell’antifascismo che dominò l’Assemblea costituente.

Il fascismo nacque con l’“anti" del movimento operaio, per rimuoverlo alla radice. Ma proprio per la sua radicale allergia alla contestazione e al pluralismo partitico, il fascismo di regime ha generato in corso d’opera altri “anti”, i quali sono venuti allo scoperto soprattutto dopo il 25 luglio 1943.

Tra liberali, cattolici, repubblicani e poi anche tra le donne, i preti, i borghesi e i possidenti c’erano differenze di idee e non tutti avevano una sola visione del bene nazionale, o del significato di nazione, o della linea guida da dare alla politica industriale. Ma tutti si fecero “patrioti” nella “pregiudiziale antifascista”.

Patriottismo e antifascismo

Questo connubio tra patriottismo e antifascismo è la bestia nera di Meloni. Anche per il suo partito, come per il fascismo delle origini, il richiamo alla patria deve essere libero da ideologie, un valore che sta sopra tutto e tutti e che quindi unisce senza essere specificato.

Nella lettera al Corriere, Meloni ha trovato la patriota giusta per esplicitare il suo pensiero: una donna di destra, Paola Del Din della brigata Osoppo, una combattente che non voleva essere definita «partigiana» ma «patriota» e che (Meloni sorvola) è stata simpatizzante di Gladio.

Un modello di patriottismo perché «lei, madre di quattro figli e nonna di altrettanti nipoti» è simbolo di tutti gli italiani che «antepongono l’amore per la propria Patria a ogni contrapposizione ideologica». Patria senza «contrapposizione ideologica». Un’idea molto fascista, in realtà.

Anche il fascismo storico ha imposto la patria apolitica, contro la quale Carlo Rosselli scrisse parole straordinarie: «Il fascismo esalta l’Italia e l’italianità. Anche noi l’esaltiamo. Ma quale Italia? Quale italianità?» E «l’amore per la propria Patria» non è libero da «ogni contrapposizione ideologica» come ci racconta Meloni – e Rosselli o don Minzoni, che comunisti non erano ma patrioti antifascisti sì, lo hanno testimoniato con la loro morte per mano dei fascisti e dei loro sicari, proprio perché pensavano che la patria dei fascisti non fosse una patria aideologica.

E si ritorna così ai fondamenti del fascismo, alla sua negazione fisica e ideologica dei movimenti e delle ideologie egualitarie (partiti della sinistra e sindacati) per imporre una patria senza “contrapposizioni ideologiche”.

Nel corso del secondo Dopoguerra tuttavia, il processo aideologico ha acquistato vigore insieme alla “fine delle ideologie”. In Italia, i frutti politici di questa lenta trasformazione dall’ideologia alla post ideologia si videro con il primo governo a guida Silvio Berlusconi.

Meloni tira le somme di questo processo dichiarando che l’ideologia classista è sepolta (si è poveri e patrioti senza bisogno di stare in “contrapposizione ideologica”) e con essa il principale obiettivo contro cui il fascismo era nato.

Ora, se l’antifascismo è stato un movimento storico e se quel movimento è morto, che senso ha dirsi antifascisti? Il senso, dice Meloni, è uno solo: escludere gli avversari politici. Alla fine, dunque, chi è antifascista è il nemico non il difensore della democrazia.

Una revisione ideologica radicale dovrà avere il suo esito nella riforma della Costituzione, svilendo il portato istituzionale dell’antifascismo: la democrazia parlamentare. Lo scopo è di inaugurare una democrazia minimalista e avaloriale: sistema di regole che mettono al centro chi comanda e come un vigile urbano dirigono il traffico degli aspiranti al governo.

Un’idea che raccoglie consensi anche fuori di Fratelli d’Italia, tra conservatori liberali che hanno sempre tenuto in sospetto sia l’ideologia classista che la “retorica” dell’antifascismo.

Lo spartiacque tra fascismo e antifascismo sta dunque nella Costituzione. Appare chiaro a questo punto perché i militanti di Fratelli d’Italia non si dicono né mai si diranno antifascisti. Si dicono «democratici» ma non «antifascisti». Dal loro punto di vista ciò è coerente al corso della storia: se l’antifascismo appartiene al passato e oggi è solo una «pregiudiziale» per escludere la destra, allora non dirsi antifascisti è un dovere!

Il trucco svelato

Il trucco è svelato: si può restare fascisti senza pagare dazio. Insomma i fascisti sono fascisti irriformati e possono tranquillamente governare. La storia ha seppellito quel passato e li ha resi liberi di non dirsi antifascisti.

Il fascismo non c’è più perché non ha più una funzione nella società odierna – anche molti intellettuali non di destra la pensano così. Il fascismo è stato la risposta storica violenta alla minaccia socialista e comunista violenta. Esso non trova più posto nel quadro politico attuale – e lo stesso vale per l’antifascismo.

Per tanto, oggi si può (si deve) essere democratici e non antifascisti – cioè afascisti. Dunque, Meloni e i suoi sono davvero fascisti irriformati, e lo dimostrano quando fanno dell’antifascismo la loro bestia nera. Mai si diranno e saranno antifascisti. Nell’afascismo sta il fascismo del XXI secolo.

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