La banalità del male prevede almeno il male: la radicale disumanità che Hannah Arendt aveva definito e raccontato seguendo il processo al nazista Adolf Eichmann, uno dei maggiori amministratori dell’olocausto, catturato dagli agenti del Mossad in Argentina nel 1960 ed estradato in Israele.

Il processo, che si concluse nel 1962 con l’impiccagione, fu seguito dalla stampa internazionale e le sue sedute trasmesse dalla televisione della Repubblica federale tedesca (allora Germania dell’Ovest) dove molto di quel materiale divenne curriculum scolastico.

Arendt uscì con resoconti periodici sul New Yorker e pubblicò Eichmann in Jurusalem nel 1962, dove sviluppò l’idea di “banalità del male”: la capacità di inumana crudeltà da parte di ordinarie persone, di funzionari e amministratori, rispetto al male concepito da altri.

Non è su un tiranno o una mente malevola soltanto che si edifica un sistema tecnologicamente funzionale di repressione e annientamento.

Secondo Simon Wiesenthal, col processo ad Eichmann il mondo familiarizzò con il concetto di “assassino da scrivania”: per compiere nefandezze uno non deve essere belzebù, è sufficiente che usi un linguaggio anonimo e nel grigiore esegua gli ordini.

Il male burocratico

Da allora, l’attenzione al linguaggio usato nella descrizione e giustificazione di decisioni e lo zelo dei funzionari pubblici nell’obbedire ordini, destano comprensibile sospetto.

Lo destano soprattutto se questo grigiore e questa normalizzazione per mezzo della lingua burocratica vengono praticati dalle democrazie costituzionali, con diritti (che non valgono mai solo per i loro cittadini) e con adesioni a convenzioni internazionali per i diritti umani, sui rifugiati, il soccorso dei profughi. I recenti casi di respingimento hanno disonorato la Repubblica italiana. E rientrano in questa ombra grigia di inumanità.

Il linguaggio usato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è questa ombra. Quando persone sono deumanizzate – descritte come “carico residuale” – non ci ci accorge di loro né del male che a loro si fa. E certo, nemmeno chi perpetra quell’arbitrio si mostra al mondo come inumano perché un “carico residuale” non soffre né respira: come un sacco di patate o uno scarto.

Da qui segue l’indicazione di attuare “sbarchi selettivi” – alcuni salvati e altri no, come se chi sta al Viminale sia un Caronte che «giudica e manda secondo ch’avvinghia».

Matteo Salvini il populista era roboante, offensivo e sbracato – a ogni sbarco era presente, se non altro con la sua propaganda, per prendersi tutto l’onore.

Il demagogo faceva del tira e molla la sua retorica, che vestiva i panni dei corpi militari o di polizia, a seconda del caso.

Giorgia Meloni l’autoritaria non si intesta nulla direttamente, lascia a chi è responsabile l’onere di dare ordini “da scrivania” senza avere leadership politica e nessuna intenzione di intestarsi con roboante propaganda quel che fa eseguire.

Usa il linguaggio e la postura dell’amministratore che con parole tecniche fa il male senza mostrarlo.

Il governo italiano non ha contezza di quanto crudele sia stato il burocratese che ha usato – e neppure ce l’hanno coloro che si sono coperti dietro “sono un funzionario dello Stato”.

Quando sono scesi dalle navi delle ong, abbiamo visto i “carichi residuali” – persone di ogni età e sesso che baciavano la terra, che è loro come nostra, essendovi tutti noi stati gettati senza volerlo.

Se quei disgraziati sono un “carico residuale” lo siamo tutti noi. Realmente, non per buonismo.

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