Questo articolo vuole ricordare che in democrazia le riforme della Costituzione, soprattutto quando sono profonde, di sistema, non dovrebbero essere mai il risultato della lotta politica tra i partiti, ma il frutto di un loro lavoro comune. Una maggioranza che cercasse di imporre il proprio “prendere o lasciare”, rischierebbe la sconfitta. Un’opposizione che rifiutasse il confronto, rischierebbe la scomparsa.

Il mondo, l’Europa e l’Italia stanno attraversando la fase più difficile dalla fine della seconda guerra mondiale. Non solo guerre e grandi squilibri sociali, ma anche il clima, la rivoluzione tecnologica, le migrazioni di massa. Oltre alle difficoltà delle democrazie e al protagonismo dei regimi autoritari.

La priorità delle riforme

Non deve sorprendere che il governo Meloni abbia messo al primo posto del suo programma la riorganizzazione dello Stato e l’aggiornamento della seconda parte della Costituzione. L’Italia ha bisogno di rinnovare il suo sistema istituzionale e da più di quarant’anni il Parlamento cerca di farlo senza successo. Commissioni parlamentari permanenti e commissioni bicamerali, commissioni di saggi, governi di centrodestra e governi di centrosinistra, ciascuno con le sue ricette, ma tutti sconfitti in Parlamento o al referendum.

I Parlamenti sono la sede naturale della lotta e delle divisioni politiche. Ma quando il gioco delle contrapposizioni diventa più importante persino delle riforme costituzionali, allora si spiega come sia potuto accadere che per più di quattro decenni in Italia il Parlamento, pur volendolo, non sia riuscito a costruire maggioranze capaci di approvare una grande riforma. Quel che è stato mirabilmente possibile all’Assemblea Costituente, è risultato essere impossibile in Parlamento.

La proposta della presidente Meloni prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio. L’iter della riforma non è ancora terminato e l’obiettivo del governo è arrivare all’approvazione prima della fine della legislatura.

Al 2027 mancano due anni e mezzo che oggi sembrano un tempo molto lungo. Ma non è così, il tempo rimasto è breve. Dovendo utilizzarlo al meglio, la presidente del Consiglio può scegliere tra tre strade, una più facile, una più difficile e una troppo utopica, troppo lungimirante.

La strada più facile consiste nel tenere la barra dritta e non modificare la rotta.

Preso atto che non c’è un accordo con l’opposizione, il governo Meloni ha deciso di far da solo e di approvare la riforma in Parlamento a maggioranza. Decisione pienamente legittima che, però, oltre a impedire di raggiugere i 2/3 dei voti che servono per evitare il referendum, rischia di dividere l’Italia proprio su ciò che dovrebbe servire a tenerla unita: le regole di base della vita dei cittadini.

Poi c’è il voto popolare del referendum, che sulla Costituzione è sempre denso di incognite. Gli elettori hanno molto fiuto e, quando sentono odore di lotta politica e spirito di parte, reagiscono subito e possono facilmente bocciare il referendum.

Il dialogo necessario

La seconda strada è più faticosa e difficile. Presuppone la volontà di riaprire un confronto serio con l’opposizione per cercare di far approvare la riforma da un amplissimo schieramento parlamentare. L’obiettivo non dovrebbe essere solo quello dei 2/3, ma soprattutto quello del dividendo politico e istituzionale che se ne potrebbe ricavare. Se la riforma venisse votata dal centro destra e dal centro sinistra, il Paese ne verrebbe rassicurato e la riforma potrebbe funzionare anche da collante sociale.

Il successo di questa strada dipenderà dalla determinazione con cui le due parti cercheranno di trovare obiettivi comuni su cui costruire un compromesso. Ad esempio, rendere più stabile il governo, rafforzare il peso del presidente del Consiglio, ostacolare quei giochi di palazzo che abbreviano la vita dei governi, modificare gli articoli 76 e 77 della Costituzione per impedire il ricorso illegittimo ai decreti legge e alle leggi delegate.

Come in tutti i compromessi ciascuna delle parti dovrà cedere qualcosa. La maggioranza avrebbe il vantaggio di potersi intestare la grande riforma e, se fosse costretta a rinunciare all’elezione diretta, potrebbe ottenere un forte rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, che è la motivazione politica del premierato. Al contrario, apparentemente, l’opposizione, potrebbe ricavare ben poco utile da un compromesso col centrodestra. Anzi, potrebbe temere di vedere incrinato il suo curriculum di oppositore a tutto campo.

La necessità di una nuova Costituente

Ma non è così. Ci sono argomenti e circostanze nei quali un partito di sinistra può e deve votare insieme alla destra, come quando sono in gioco norme costituzionali che servono a rendere più forte la democrazia. Ancora oggi, a distanza di 75 anni, l’Italia ricorda con riconoscenza l’allora opposizione che alla Costituente non si fece scrupolo di approvare assieme alla maggioranza norme che avrebbero rinforzato la democrazia nascente, ma il cui contenuto non rientrava nel suo programma.

Se la prima strada è la più facile e la seconda è molto difficile, la terza, che prevede una nuova Assemblea Costituente, non piace né ai partiti politici, né a molti costituzionalisti. Un’utopia, quindi, nonostante una Costituente sia, forse, l’unico strumento in grado di affrontare organicamente, con metodo democratico, il compito ciclopico dell’ammodernamento della seconda parte della Costituzione. La Costituzione è stata scritta dall’Assemblea Costituente perché mai sarebbe riuscito a scriverla un Parlamento nel quale, anche allora, prevalevano le forti tensioni politiche. Se si vuole intervenire sulla forma di governo e, contemporaneamente, modificare tutte le numerose norme costituzionali che vi sono collegate, è difficile pensare di poterlo fare con uno strumento diverso da quello con il quale la Costituzione è stata scritta.

Nonostante le varie riserve, vi sono molti argomenti a sostegno delle ragioni di una nuova Assemblea Costituente, soprattutto se l’obiettivo è quello dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. L’elezione diretta, infatti, muta alla radice la forma della Repubblica trasformandola da parlamentare in presidenziale. Un passaggio che cambia la natura profonda della democrazia repubblicana. Per la posizione centrale che la Costituzione le ha assegnato nel delicato equilibrio dei poteri dello Stato, la democrazia parlamentare è un principio supremo non modificabile con la procedura dell’art. 138.

Se le nuove norme sono tali da modificare radicalmente non la forma di governo quanto la natura stessa della democrazia parlamentare, la loro legittimazione può venire solo dall’uso dello stesso strumento che fu utilizzato per scrivere la Costituzione. Un’Assemblea Costituente, appunto.

Va da sé che un’Assemblea Costituente dovrebbe durare non meno di 18 mesi, dovrebbe essere promossa con legge costituzionale e i suoi componenti eletti con una legge proporzionale pura, senza sbarramenti, senza membri di diritto, con la previsione di un’incompatibilità assoluta con qualsiasi altra carica pubblica compresa quella di parlamentare.

Le possibilità che le forze politiche italiane accettino non dico di approvare, ma anche solo di esaminare, l’ipotesi di una Costituente vanno dall’uno allo zero per cento. E questo, viste le difficoltà del Parlamento, è un gran peccato.

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