«Riprendiamo il bandolo»*, il titolo di questo seminario, è un bel titolo. Di per sé eloquente. Il bandolo si è perso. Diciamo che si è perduta la strada. Tenterò di dire alcune cose con franchezza. Come recita il detto: il medico pietoso, che non affonda il bisturi, rende la piaga purulenta. È quello che stiamo vedendo in questi giorni.

Per questa franchezza mi dà l’occasione il libro di Goffredo Bettini.

Un libro franco, direi irriverente. Giocato tra storia e cronaca. Tra visione e contingenza. Come deve essere il parlare e il pensare politico alternativo. Tra critica destituente e proposta costituente.

Non si dà per me filosofia della prassi, nemmeno quella nobilmente gramsciana. La prassi non vuole filosofia, vuole politica. Politica pensata. 

In questi anni non ci siamo detti la verità. E cioè che siamo entrati nel labirinto del dopo Novecento senza il filo di Arianna. Per questo ci siamo persi. Anzi quel filo è stato tagliato perché ormai inservibile, visto che invece di vedere labirinto si vedeva davanti l’autostrada della Terza Via. Tutto parte da lì.

Il sonno dogmatico

Lucia Annunziata, in un articolo sulla Stampa, trovava in quella riunione a Firenze dei leader della sinistra del 1999 un passaggio significativo. Questo avveniva alla fine degli anni Novanta, che avevano visto le sinistre al governo nella gran parte dei paesi europei: gestori delle magnifiche sorti e progressive del nuovo capitalismo-mondo finalmente unipolare, finalmente libero dall’incubo del socialismo realizzato.

Un’illusione ottica, proprio di quella che io chiamo la generazione della fine della storia, che ha creduto in quella fable convenue.

Ma forse l’11 settembre 2001 e ancor più la crisi del 2007-2008 di quell’impianto ordoliberista, li ha svegliati da quel sonno dogmatico? Niente affatto. All’opposizione o al governo hanno continuato a crederci. E cioè a credere, vogliamo essere generosi?, a credere ingenuamente, in pratica senza contropartite, alla formula thatcheriana del “non c’è alternativa”.

È allora che nasce il Pd. Anche qui ad essere generosi, forse per superare quella sbornia con una nuova sobrietà accattivante. Ma che si è rivelata nei fatti non meno subalterna. 

Il Pd non è nato, come si dice comunemente, per mettere insieme, in un’unica formazione politica, le due tradizioni, quella cattolico-democratica e quella socialista e comunista. Magari fosse stato così. Si sarebbe realizzata l’ultima proposta strategica di medio periodo che in fondo fu il compromesso storico.

È nato sull’idea che quelle due componenti popolari fossero ormai esaurite nel Paese. E che occorreva tentare qualcosa di completamente nuovo.

E il nuovo era quel progetto veltroniano/americano nel nome, non casuale, di Partito democratico, partito a vocazione maggioritaria, con tanto di bipartitismo e nella sua identità data dal meccanismo delle primarie, per l’elezione diretta del candidato leader eventuale premier.

Il Pd, una novità insipida

La novità per l’immediato fruttò in termini di consenso, come paiono fruttare oggi tutte le più insipide novità. Ma c’è una legge non scritta: tutti i nuovi inizi precipitano lentamente in una inevitabile fine.

A partire da lì, gradualmente, giorno dopo giorno, si è perduto un popolo specifico, in primis quello del mondo del lavoro, per guadagnare una generica opinione pubblica, che comunque la usi ti dà un consenso senza forza, senza la forza necessaria per la lotta.

E senza forza non c’è lotta. E senza lotta non c’è risultato.

Non è vero che quelle componenti popolari fossero allora esaurite. Avevano cambiato fisionomia, strutturalmente nella composizione sociale, culturalmente con l’innesto in esse che era avvenuto di culture libertarie. Bisognava darle semmai nuova forma politica in una visione strategica di lungo e largo respiro. Ma, miei cari, per far questo non ci voleva Prodi, ci voleva Togliatti.

Che cosa è invece accaduto? È accaduto che su quel progetto veltroniano, a cui va riconosciuta anche un’ambizione coraggiosa, che voleva saltare oltre l’ostacolo, si sono innestati i due gruppi dirigenti residuali di quelle componenti popolari. Quelli, sì, esauriti nella loro capacitò di direzione dei processi.

Ecco, per riprendere il bandolo bisogna riacchiapparlo da lì. Qui c’è da fare un passaggio teorico. Ce l’ho con questo tema, da tempo, ne ho fatto un cavallo di battaglia.

Non c’è mai un nuovo inizio puro. Lo devi mettere dentro una continuità storica. Se non lo metti lì dentro la storia si vendica. Tra politica e storia c’è conflitto. Non può esserci pace. Sono realtà diverse, come soggetto e oggetto.

Per pensare e praticare il salto politico lo devi misurare prima, non dopo, con le repliche possibili della storia. È delicatissimo il rapporto tra il momento presente della rottura e il tempo del passato che sempre ritorna.

L’abbiamo visto nel nostro piccolo al momento del traumatico passaggio dal Pci al dopo. Passaggio necessario ma fatto con troppo estrema miope leggerezza.

L’abbiamo sperimentato più in grande nel tentativo di costruzione comunista del socialismo. Questa attuale guerra mi ha suscitato riflessioni anche da questo lato. Non si capiscono i settanta anni dell’Unione Sovietica se non li leggi dentro i mille anni di storia della grande madre Russia, quella di prima, quella del dopo. Appunto pensando, scorgi a volte, a tratti, una misteriosa continuità.

Marx non basta

Perché la scintilla della rivoluzione lì e la cenere che lì ne è rimasta? Perché lì c’erano Lenin e i bolscevichi? Sì, ma perché Lenin e i bolscevichi erano lì e non erano in Inghilterra, non erano in Germania. E lì c’erano, e ci sono pallidamente ancora, i menscevichi?

I soli schemi marxiani sono insufficienti a capire. Non vanno abbandonati, vanno arricchiti con altre dimensioni della ricerca, con la teologia politica, indispensabile per capire la santa Russia, con la filosofia dell’esistenza, indispensabile per capire l’anima russa, con l’antropologia negativa per capire il legno storto dell’essere umano, oggi tanto più con la geopolitica per capire i grandi spazi-mondo.

Ma rimettiamo a terra, come si dice oggi, il discorso. Con alcune domande. Ma che cos’altro deve succedere per liberarsi a sinistra da questo apparato ideologico storicista, idealistico o materialistico non fa differenza?

La storia non è hegelianamente questa freccia lineare del tempo nuovo che avanza, secolarizzazione di una storia della salvezza. È piuttosto nietzschianamente questo circolo delle stesse cose che ritornano.

Ecco perché è così difficile e a volte impossibile la trasformazione radicale. E più allunghi il passo verso il futuro, più il passato ti respinge indietro.

E dopo ogni rivoluzione arriva la restaurazione. Quando ci si libererà di questo razionalismo illuminista che è inevitabilmente, credetemi, inevitabilmente di segno borghese, costruito per difendere quell’interesse.

Non ho mai amato più di tanto i francofortesi. Ma devo dire che avevano colto questo punto. Per cui ogni insubordinazione viene derubricata in un moto dell’irrazionale. Dovrebbe essere chiaro a questo punto che il progressismo non basta per sconfiggere il conservatorismo. Il conservatorismo ha ragioni reali, non lo combatti con principi ideali. Se ai bisogni sai contrapporre solo valori hai già perso in partenza, dal punto di vista del consenso di popolo disagiato e sofferente.

Per batterla alla destra devi togliere le sue ragioni, declinandole in nodo alternativo. Ma mai ignorandole. Solo così sei legittimato, cioè sei credibile, sei affidabile nel proporre anche i tuoi principi,  e anche valori.

L’ho detta così. La sinistra non vince se non toglie popolo alla destra. Insopportabile una destra popolare e una sinistra elitaria. Nel tempo poi di un conflitto frontale tra popolo ed élite.

Tradizione non è il contrario di rivoluzione

L’idea di nazione lo vedi perfino nei campionati mondiali di calcio quanto ancora conta. Il bisogno di sicurezza sociale lo incontri in qualunque spazio di periferia metropolitana. Il disagio del povero natìo nei confronti del povero immigrato è una strumentalizzazione della destra perché tu non sai dare risposta al problema che non sia una generica invocazione umanitaria.

E la tradizione, cavallo di battaglia della destra conservatrice. Tradizione è il contrario di innovazione. Ma tradizione non è il contrario di rivoluzione. Leggere Benjamin.

La nostra tradizione è quella degli oppressi che si ribellano, la lunga serie di rivolte delle classi subalterne, cui fa appassionato riferimento Bettini nel suo libro.

E due secoli di lotta di classe condotta dal movimento operaio organizzato per scrollarsi di dosso questa subalternità. Un patrimonio, un’eredità, del passato, da conservare, e da reimmettere nel presente.

Ho imparato da molto tempo a frequentare il pensiero grande conservatore, da Machiavelli a Hobbes, nel grande Seicento, da Weber a Schmitt nel grande Novecento. Ne ho tratto, vi assicuro, gran profitto per la buona salute del mio pensiero rivoluzionario.

Il realismo politico conservatore mi ha vaccinato contro il virus da ogni forma di ideologismo, sia esso riformista o radicale.

Un’ultima cosa. Non voglio prendere posizione sul tema di questa guerra in atto. Perché in questa forma di totalitarismo democratico non è data agibilità per un discorso libero dalla narrazione dominante.

Incatenati all’atlantismo

Solo una considerazione generale, a proposito di quell’identità che si va cercando per il Pd e la sinistra di domani. Ma è possibile che ci si debba incatenare così, mani e piedi, e per usare questa orribile espressione, senza se e senza ma, a tale fondamentalismo atlantista, raccomandandolo al nostro popolo che lo ha combattuto per decenni e che tra l’altro sta facendo, non solo dell’Italia che conta poco o niente ma dell’Europa, un attore politico inesistente, insignificante?

Quand’è che acquisiamo il discorso di fondo sul tramonto dell’Occidente,

evocato giusto un secolo fa e oggi quasi in finale di partita? Tramonto, certo, dei suoi valori, non ancora della sua potenza tecnologica e militare, ancor più in armi. Ma sempre più una potenza forte in sviluppo con valori deboli in caduta, in decadenza, in crisi di credibilità.

Ma non si può prendere un minimo di distanza. Questo spostamento dell’asse del mondo di nuovo dall’Atlantico al Pacifico, di nuovo perché già avvenuto nei secoli passati, a riprova dei vichiani corsi e ricorsi storici, vogliamo metterlo a tema politico o lo ignoriamo.

Miliardi di esseri umani si stanno emancipando e liberando da tempi biblici di sfruttamento colonialista e di oppressione imperialista, occidentale, riprendendo in mano il proprio destino, giustamente con le loro culture e tradizioni, appunto, e religioni e forme politiche a loro adatte.

Ma chi siamo noi per dover imporre legge al mondo? Lo scontro di civiltà è in atto. Prendere posizione è necessario. Altro che il balletto delle riunioni nel salottino dell’Unione economica europea.

Allora, dopo lo spettacolo di Francia-Argentina la metafora calcistica ci sta bene. Mi rendo conto. Ho fatto un’irruzione a gamba tesa. Ma ho mirato al pallone, non al piede. Non credo ci sia fallo.

*«Riprendiamo il bandolo» è il titolo di un seminario svolto lo scorso 21 dicembre a Roma sul libro di Goffredo Bettini «A sinistra. Da capo». (Paperfirst). Riproponiamo la trascrizione dell’intervento di Mario Tronti, ex senatore Pd, filosofo e politico, fra i principali teorici del marxismo operaista italiano.

   

  

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