Dopo non aver sfigurato rispetto agli anni precedenti nell’offrirci la sua buona dose di catastrofi, il 2023 si avvia alla conclusione esibendo insolite triangolazioni internazionali: Israele, Russia, Arabia Saudita, Iran, Cina, India… passano dalle minacce al dialogo, dal boicottaggio agli accordi commerciali e viceversa nel giro di poche settimane.

Difficile coglierne la logica nel dedalo intricato di un «mondo multipolare”» profetizzato dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov insieme alla «fine del dominio occidentale».

Di certo questa smodata entropia dovrà prima o poi trovare una sua forma in un nuovo nomos, per parafrasare un’espressione cara a Carl Schmitt: un ordinamento del pianeta fatto di confini, rapporti di sovranità e influenze economiche, di cui oggi fatichiamo a intravedere i contorni.

Tra realismo e idealismo 

Tuttavia, la storia insegna che, per solidificare questo magma in un nuovo assetto, concentrarsi sul presente non sarà sufficiente. Si dovrà fare i conti con le nostre convinzioni più profonde, cercando di risolvere i conflitti che ancora stanno plasmando il mondo in cui viviamo e compiendo scelte non più rimandabili su come ci rapportiamo con gli “altri”.
Le opzioni in tal senso si riducono a due: o ci affidiamo al realismo, pronti a venire a patti anche con i nostri avversari più ostili, o ci votiamo all’idealismo più puro, dispiegando i vessilli della nostra religione laica e combattendo il nemico “fino alla fine”.

Non è un dubbio inedito: la nostra civiltà ha sempre oscillato tra questi due estremi. Greci e romani non avevano bisogno di giustificare la guerra: rientrava nella logica del pragmatismo politico con regole tanto più sofisticate quanto più reputavano civili i propri avversari.
È stato il cristianesimo a introdurre il principio del “conflitto giusto”. Affinché la guerra fosse moralmente tollerabile, era necessario che rispondesse a una intenzione legittima, un “bene supremo” a cui si contrapponeva il “male assoluto” incarnato dal nemico.

Nuovo equilibrio

Nel 1648, la prospettiva realista tornò in auge allorché le potenze europee si riunirono in Vestfalia, concludendo la guerra dei Trent’anni e decenni di massacri tra cattolici e protestanti. Quella pace è considerata un punto di svolta della modernità: nel momento in cui si costruiscono le fondamenta dello stato-nazione, l’avversario cessa di essere il “demonio” da annichilire e diviene attore legittimo a cui riconoscere intenzioni lecite benché avverse.

L’epoca del razionalismo politico ha, tuttavia, vita breve: la “religione” di liberté, égalité, fraternité è il motore delle campagne napoleoniche, il verbo del nazionalismo la benzina delle guerre di Indipendenza. Infine, la Seconda guerra mondiale: difficile trovare un dogmatismo più fanatico di quello nazista e contro cui è altrettanto giusto votarsi all’annientamento.

A Yalta il mondo sembra tornare al principio di una ragione condivisa, ancorché limitata alla “logica” della deterrenza nucleare, ma, con la vittoria dell’occidente nella Guerra Fredda, una nuova idea di giustizia assurge a “teologia”: sull’altare figurano i princìpi universali della democrazia liberale, trascendenti ogni altra ragione politica.
Un impianto giuridico teleologico, da “fine della storia”, che rende legittimo il conflitto contro tutti coloro che si oppongono ad esso. Ogni guerra, comprese quelle combattute con le merci anziché con i fucili, viene così vissuta come una “questione personale”, un attacco ai caratteri più intimi e profondi del nostro senso di giustizia con cui il nemico mira ad abbattere il nostro “Dio democratico”.

Oggi siamo ripiombati sul finale della guerra dei Trent’anni: stiamo vivendo un intrecciarsi di conflitti nel nome di “religioni civili” nemiche, mentre c’è chi si appresta a discutere, anche senza di noi, nuovi equilibri. Per l’occidente è il tempo di scegliere: difendere a oltranza il proprio o tentare di costruirne uno nuovo, basato su multilateralismo e realpolitik? L’unica certezza è che, se ci sarà Pace, avrà un nome molto più esotico di Vestfalia.

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