Negli ultimi dodici mesi Walter Veltroni ha scritto una sessantina di articoli per il Corriere della Sera e cinque libri con quattro editori diversi che sono andati a sovrapporsi alla ormai copiosa produzione di film e documentari. Ha una velocità impressionante. Un giallo ambientato nell’estate 2020 è uscito a ottobre, scritto praticamente in tipografia. È anche diventato presidente della “giuria dei letterati” del premio Campiello.

Mercoledì scorso ha raccontato la storia dei figli degli immigrati in Svezia che reagiscono allo stress addormentandosi per mesi o anni e subito l’hanno invitato a Radiouno per chiedergli se «loro dormono perché rispetto a loro dormiamo un po’ noi». Poi però si è capito che la “storia incredibile” era ripresa pari pari da un articolo del New Yorker di quattro anni fa, a parte la chiusa: «Quei bambini che dormono, senza saperlo, vogliono salvare il mondo». Il giorno dopo è tornato in picchiata sull’attualità, spiegando sulla Gazzetta dello Sport che l’ingaggio di José Mourinho rappresenta per la Roma «un salto di qualità». La sua mancanza di originalità è così esemplare da non poter escludere che gli valga un posto nella storia della cultura nazionale.

Veltroni si propone come poligrafo, cioè «autore di opere su argomentí varî, talvolta anche assai disparati, nel quale però, a una notevole versatilità, può accompagnarsi spesso la mancanza di precisi interessi e scarsa profondità di pensiero», secondo il dizionario Treccani. E qui potremmo fermarci alla leggendaria battuta attribuita al suo fratello-coltello Massimo D’Alema: «È l’unico uomo al mondo che ha scritto più libri di quanti ne ha letti». Solo che Veltroni è anche considerato in corsa per la presidenza della Repubblica.

In una recente intervista, a domanda ha risposto: «Sono molto appagato dai miei attuali impegni culturali», frase che i politici cinici leggono come conferma delle ambizioni. Infatti il presidente viene eletto a voto segreto da un migliaio di parlamentari integrati dai rappresentanti delle regioni, un grande conclave. Per diventare papa, ma anche per andare al Quirinale bisogna prepararsi con anni di anticipo diventando invisibili, con patti segreti e talvolta indicibili, e decidendo se scommettere su una marcata opzione politica o su un profilo sbiadito. E così tutti osservano Veltroni giornalista, regista, giallista, romanziere, saggista, documentarista e, soprattutto, ospite radiofonico e televisivo, chiedendosi se la sua non sia una innovativa campagna elettorale in vista dello sprint finale fra meno di un anno.

Come se si preparasse alle operazioni sottobanco costruendo attorno a sé un consenso mediatico e bipartisan. È una carta che ha già giocato. Nel 1994, quando il consiglio nazionale del Pds doveva eleggere il nuovo segretario al posto di Achille Occhetto (travolto da Silvio Berlusconi alle elezioni europee), i due sfidanti D’Alema e Veltroni seguirono strade diverse. Il primo fece campagna elettorale tra i 450 grandi elettori, la cosiddetta nomenklatura dell’ex Pci. Il secondo si affidò al “popolo dei fax” (il “popolo del web” di allora), migliaia di messaggi di appoggio trasmessi dai dirigenti periferici alla sede di via delle Botteghe Oscure. Ciò lo fece apparire come l’uomo del popolo contrapposto all’uomo dell’apparato. Una grande operazione d’immagine che lo portò alla prevedibile disfatta (vinse D’Alema con 249 voti contro 173, 1° luglio 1994) e a far storcere il naso al costituzionalista Stefano Rodotà: «Siamo ormai nell’èra del lobbismo democratico, dove i cittadini, grazie alle nuove forme di comunicazione, influenzano quoditianamente la politica e dove i politici, con gli stessi mezzi, influenzano quotidianamente i cittadini».

Nel 1999 però Veltroni si prende la rivincita. D’Alema è a palazzo Chigi, lui è diventato segretario del partito che ha cambiato nome in Ds. C’è da eleggere il successore di Oscar Luigi Scalfaro e D’Alema ha un accordo di ferro con il leader degli ex democristiani Franco Marini, azionista chiave dell’Ulivo, per mandarlo al Quirinale e rinsaldare così la presa della maggioranza.

Veltroni si inventa il nome di Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro popolarissimo per aver appena portato l’Italia nell’euro, mentre Marini è presentato dai media come vecchio ceto politico. In più l’opposizione berlusconiana prende al volo l’occasione di un’elezione bipartisan che spezzi la trama politica del centrosinistra. Ciampi viene eletto a larghissima maggioranza al primo scrutinio e inizia il declino di D’Alema. Con questi cari ricordi, Veltroni resta fedele a un’idea novecentesca dei media e dei sentimenti politici. Non si spende sui social network e insiste su uno stinto buonismo pastello a cui nessuno attribuisce possibilità di successo. Eppure il suo attivismo letterario ne supporta l’immagine in modo che, qualora i giochi politici di palazzo andassero in stallo, il suo nome potrebbe rivelarsi quello giusto per sbloccare la situazione.

Fiuto pop

Sarebbe un colpo di fortuna, ma la fortuna va aiutata, e in fondo quasi mai il favorito della vigilia ha raggiunto il Quirinale. Veltroni ha sempre avuto fiuto per la comunicazione pop. Ciò che l’ha reso celebre è stata la ripubblicazione, in allegato all’Unità che dirigeva, dei vecchi album delle figurine Panini. Mentre nel 2007, quando è stato chiamato a fondare il Pd come primo segretario, è durato un anno e mezzo e ha lasciato dietro di sé le macerie di un partito mai nato, dimostrando che la retorica del “ma anche” era inadatta alla politica vera. Dunque bisogna “andare al popolo”. L’archetipo è Luciano Violante, ex comunista che nel 1996, eletto presidente della Camera, inciampò nel disastroso omaggio ai “ragazzi di Salò”, subito tradotto in una autocandidatura per il Quirinale ma troppo sbandato a destra.

Veltroni invece, banalizzando, non si sbilancia mai. Nel suo presepe l’amore vince sempre sull’odio e non ci sono conflitti o classi sociali. Gli anni Settanta della violenza politica sono stati «balordi e bastardi» (suona bene e non impegna) e quei ragazzi che si sono ammazzati tra loro, rossi e neri, «devono oggi essere uniti nella memoria collettiva». Il lupo deve giacere con l’agnello, Aldo Moro con Enrico Berlinguer, il fascista col comunista, lo juventino con il romanista, il migrante africano con il politico che si è comprato casa a Manhattan. E naturalmente la maggioranza con l’opposizione. Per il Covid ha proposto di «creare subito un tavolo permanente di consultazione tra tutte le forze parlamentari», che è poi l’invenzione del parlamento. Ma la sua comunicazione anni Novanta gli impone di proporsi ad ogni costo come profeta della pacificazione anche tra gente che magari si vuole già bene: «L’odio è il più pericoloso dei sentimenti umani». Come dargli torto?

L’ovvio piace

Detto senza ironia, l’ovvio piace. Fa simpatia e Veltroni lo sa. Intervistando il cardinale Ravasi è riuscito a chiedergli: «C’è il rischio che la solitudine possa trasformarsi in disperazione?» e «dove può finire un mondo senza speranza?», infilando tra una risposta e l’altra il suo affondo: «Il futuro è l’unico luogo in cui siamo diretti». Ha notato nell’agguato di via Fani «qualcosa di chirurgico», però poi «le Brigate Rosse, per arrivare troppo vicine al sole, si sono bruciate le ali». Le epoche storiche sono fatte di «anni irripetibili» sempre contrapposti a «questo tempo che ci appare straniero». Serve talento per dire cose note e ineccepibili con lo stupore infantile della scoperta.

Quando accoglie Mourinho, Roma è «città strana e meravigliosa», quando saluta Alberto Sordi è «meravigliosa e bistrattata». E «boh è parola tutta e solo italiana», come se fosse l’unica. Poi c’è la pandemia che, se non lo sapevate, «pesa come un macigno sullo stato d’animo di tutti» e perciò lo spinge a proposte stralunate ma non divisive, che è quello che conta: vaccinare «i ragazzi italiani» prima dei loro genitori visto che si abbassa l’età media dei contagiati; o tenere le librerie aperte tutta la notte, come le farmacie, perché «i libri devono essere le nostre medicine, sempre a portata di mano». Senza ironia, il problema politologico è serio. Si può diventare presidente della Repubblica predicando che «il paese ha un disperato bisogno di sperare per andare avanti»? In questo tempo che ci appare straniero la risposta non è scontata.

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