Il 7 marzo del 1991 apparvero all’orizzonte del mare di Brindisi numerose imbarcazioni provenienti dall’Albania, con migliaia di uomini e donne a bordo. Erano i primi, consistenti sbarchi di migranti in Italia.      

L’Albania, di cui gli italiani si erano dimenticati nei decenni della dittatura di Enver Hoxha, irrompeva improvvisamente negli schermi televisivi, con il volto giovane e un po’ spaesato dei profughi che approdavano sulle coste pugliesi.

Che gli albanesi si preparassero alla fuga non era un mistero. Il paese versava in condizioni drammatiche e la popolazione era ridotta in miseria. Il regime comunista, orfano di Enver Hoxha, morto nel 1985, aveva iniziato a sgretolarsi, sulla spinta degli eventi internazionali e dell’incapacità di arrestare il tracollo socioeconomico del paese. Il rigido controllo poliziesco del passato cedeva il passo al caos. Il 20 febbraio 1991 la folla esasperata buttò giù il simbolo della dittatura, l’imponente statua di Enver Hoxha in piazza Skanderbeg a Tirana. Nei porti, i poliziotti si sfilavano le divise e si mischiavano alla folla in fuga che cercava di salire sulle barche. Iniziava l’esodo albanese.   

Circa 12.000 persone arrivarono sulle coste pugliesi nell’arco di 48 ore, tra il 7 e l’8 marzo, a bordo di navi e pescherecci. Complessivamente furono 24.000 alla fine del mese, giunte su imbarcazioni di ogni tipo, da grandi navi a chiatte, motovedette rubate, fino a piccoli legni di pescatori.

Già il 7 i giornali annunciavano le partenze dai porti albanesi: “Quindici imbarcazioni stracariche di migliaia di profughi sono salpate ieri sera verso l’Italia”, avvertiva La Stampa, riferendo di un “caotico esodo di masse di persone in fuga dall’Albania”. Si apriva, per i brindisini, un marzo speciale, che resta indelebile nella memoria cittadina.

Arrivavano uomini e donne giovani e giovanissimi, tanti adolescenti, saliti sulle barche solo perché ne avevano avuto la possibilità, senza neppure sapere cosa li aspettava in mare o dopo la traversata. Erano privi di tutto, non avevano soldi né cibo, erano partiti con i soli vestiti che avevano indosso. “Vestiti di stracci”, commentavano i giornali italiani, che ribattezzarono i profughi albanesi il “popolo delle zattere”.  

Per alcuni giorni, il porto di Brindisi e le zone adiacenti, i parchi pubblici, le piazze, furono pacificamente invasi da quelle migliaia di persone che cercavano l’America in Italia. I brindisini mostrarono grande generosità. I profughi furono sfamati e vestiti dalla popolazione, in una sorta di gara di solidarietà. La spontanea efficienza della comunità cittadina strideva con l’incapacità delle istituzioni nell’affrontare tempestivamente la situazione. Per giorni, Brindisi assomigliò a un enorme bivacco, senza però che si verificassero disordini gravi. 

Sui giornali iniziarono a suonare le campane dell’allarme. Alla iniziale pietà verso i profughi si sostituì il timore dell’invasione. I toni con cui gli albanesi venivano descritti cambiarono rapidamente, volgendo verso rappresentazioni sempre più negative: selvaggi, violenti e pericolosi, i giovani balcanici avrebbero destabilizzato la società italiana.

I 24.000 di marzo ricevettero comunque un permesso di soggiorno provvisorio, che gli consentì di restare in Italia. Coloro che giunsero nei mesi successivi ebbero meno fortuna. A giugno il governo italiano decise di respingere i migranti dall’Albania, ormai non più considerati profughi. Quando l’8 agosto entrò nel porto di Bari l’imponente nave Vlora, con ben 18.000 albanesi a bordo – il più grande sbarco di migranti della storia italiana – il destino di quelle persone era già segnato: furono tutti rimpatriati, nel nome di una politica di chiusura decisa da Roma, complice l’allarmismo esploso sui media.   

Oggi, a distanza di trent’anni da quegli eventi, vivono in Italia 440.000 albanesi, che nessuno considera un problema. Sono ben integrati nel tessuto sociale e produttivo del paese e l’immigrazione albanese è a buon motivo considerata un’esperienza di successo.

A rileggere le cronache del 1991 in cui si parlava di orde di selvaggi impossibili da integrare, vien da sorridere pensando a come la storia, alla fine, renda giustizia di ogni semplificazione.  

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