Dio, fammi respirare. Pensava così Caeleb Dressel, oggi 27 anni, il nuotatore più veloce della storia. Fa’ che atterri in piedi, non farmi cadere: era la preghiera muta di Simone Biles, la star della ginnastica continuamente alla ricerca dell’equilibrio. Perché dovrei sopportarlo ancora, si chiedeva la tennista Naomi Osaka tutte le volte che un giornalista cominciava la domanda da un punto perso, o da un match buttato. Non ne posso più, piangeva Simone Manuel, prima afroamericana della storia a vincere un oro olimpico nel nuoto, costretta a ripetersi all’infinito. Non posso farcela da sola, si disse Jade Jones tre anni fa, alla prima Olimpiade senza la sua famiglia, tenuta lontana dalla pandemia. Non voglio più vedere una piscina, promise a sé stesso Adam Peaty dopo i due ori di Tokyo: aveva 26 anni. La storia dello sport al più alto livello, quello olimpico, è piena di successi che si trasformano rapidamente in polvere, come carrozze diventate zucche allo scoccare della mezzanotte. Ma qui le favole non c’entrano, questa è la vita. E quella dei superatleti è troppo spesso un inferno. Nascosto dietro i bouquet di fiori, le lacrime che accompagnano l’inno, la medaglia presa a morsi a uso e consumo dei fotografi.

A un mese dall’inizio dell’Olimpiade di Parigi, alcuni fantasmi si agitano sui Giochi. Sono quelli che hanno toccato il fondo e poi sono risaliti in superficie, sorridenti come sincronette. Quelli che a un certo punto hanno detto: basta, smetto, non ne posso più. Che sono usciti dal tunnel perché hanno scelto di accendere le luci: il disagio mentale esiste, e lo sport d’eccellenza non fa eccezione. Scegliere la condivisione, la denuncia, la confessione è un passo avanti verso la libertà. Rimanere soli non è una soluzione, raccontarlo al mondo è un modo di curarsi. Poi però tornano tutti, perché questa è l’unica cosa che sanno fare davvero, e che fanno da quando sono nati: allenarsi, gareggiare, vincere. A Parigi, tra un mese, cerchiamoli in pedana, in vasca, sulla pista, in campo. E pensiamo che in qualcosa ci somigliamo, anche se noi andiamo più piano, tiriamo fuori dalle righe e non sappiamo camminare sulla trave.

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Caeleb Dressel

Caeleb Dressel è nato nell’agosto del ‘96 a Green Cove Springs, in Florida. A 13 anni faceva collezione di record, poi ha cominciato con le medaglie olimpiche: ne ha vinte sette d’oro, cinque soltanto a Tokyo. Poi è andato in frantumi.

«Quando sono tornato dai Giochi l'obiettivo più grande era essere in grado di respirare», ha raccontato a People Magazine, che lo aveva intervistato in qualità di campione «più sexy del pianeta». Lui che al college pensava di aver scelto lo sport sbagliato. «Nuotare non era figo. Portavo gli occhiali, ero super magro, allampanato: il miscuglio perfetto per essere uno strambo».

Cominciarono gli attacchi di panico. «Non volevo fare nulla, non andavo a scuola, non nuotavo. Sono stato praticamente sdraiato a letto per tutte le ore del giorno, per un paio di mesi». Dopo Tokyo la ricaduta. «Penso di aver esagerato, mi sono fatto impazzire e non credo sia giusto nei miei confronti. Vorrei dare un po’ più di priorità a me stesso invece che al nuoto».

Ai Trials è tornato e si è guadagnato Parigi: non sui 100 stile, ma sulla vasca secca sì, e i 100 li nuoterà a farfalla. Pensa di aver imparato a fare i conti con il tempo. «I Giochi sono una volta ogni quattro anni, la mia gara più lunga dura 49 secondi, la mia più breve 21 secondi, non è facile accordare grandezze così diverse». In compenso stavolta in tribuna ci sarà anche August, suo figlio nato il 17 febbraio.

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Adam Peaty

Anche Adam Peaty ha dovuto reinventarsi. Ai Trials inglesi ha ottenuto 57.94, il suo tempo più veloce sui 100 metri rana dal 2021: il biglietto per Parigi. E quello che Peaty ha detto dopo ha dimostrato che è sulla buona strada. «Sono ancora un secondo più lento rispetto al mio record mondiale. Qualche anno fa sarei stato deluso, ma ho imparato ad apprezzare i momenti di grandezza per me stesso, non in relazione al mondo. Sto trovando la pace in acqua e una nuova versione di me stesso che mi piace molto e credo che possa fare molto bene alle Olimpiadi».

Del nuoto dice che non è un lavoro normale, e che chiede troppo ai suoi adepti. Peaty ha dovuto affrontare la depressione e l’alcol, «la mia famiglia mi ha aiutato a superare tre anni infernali». Il tempo scandito per Giochi, da un’Olimpiade all’altra, da una scadenza a quella successiva. «Non volevo più vedere una piscina. Lo sport mi aveva distrutto. Vittoria e successo compromettono la salute mentale. Ma alle Olimpiadi di Parigi voglio esserci. Ora mi sveglio ogni giorno e mi godo il mio lavoro». Intanto suo figlio George-Anderson, piccolissimo a Tokyo, ha quasi quattro anni.

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Le due Simone

Simone Manuel ai Giochi di Rio era stata la prima nuotatrice di colore a conquistare una medaglia d’oro individuale: vinse due ori e due argenti. Cinque anni dopo era un fascio di nervi: il lockdown l’aveva sfinita, i risultati non arrivavano più. «Tutti pensavano che io avessi la testa altrove, negli sponsor o in chissà che, e che non fossi più in grado di essere un’atleta agonista. Niente di più sbagliato». I medici diagnosticarono una sindrome da sovrallenamento, che le causava depressione, ansia e insonnia. Dopo un lungo stop, Simone tornerà a Parigi. «Vincere è faticoso ma molto divertente».

La ginnasta Simone Biles ha raccontato che dopo essere inciampata durante il volteggio ai Giochi di Tokyo ha immaginato subito che sarebbe stata bandita dall'America. «Pensavo: L'America mi odia. Il mondo mi odierà. Posso solo immaginare cosa stanno dicendo su Twitter in questo momento». Ha spiegato che ha sentito il suo cuore spezzarsi, e ha confessato che se lo aspettava già da prima di atterrare in Giappone, mentre era in volo. «Combattevo con i miei demoni».

Ha lasciato intendere che l'incidente era dovuto agli abusi sessuali subiti dal medico Larry Nassar. Si è presa due anni di pausa, ha allineato tutto andando in terapia, si è sposata e ha addirittura smesso di pensare che deve mostrarsi forte. Ha detto che «in un certo senso è traumatizzante» tornare di nuovo alle Olimpiadi, eppure lo farà. «A questo punto, niente può spezzarmi».

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Naomi Osaka e Jade Jones

Ci sembra che abbiano il mondo ai loro piedi, ma senza accorgercene glielo appoggiamo sulle spalle. Spalle allenate, ma pur sempre fragili. Naomi Osaka era in mondovisione quando accese il braciere olimpico a Tokyo. Ma ben presto le si spense qualcosa dentro, e uscì troppo in fretta dal torneo che doveva essere suo. La pressione aveva superato il divertimento e l’istinto: senza libertà mentale quei gesti dettati dal talento implodono.

Jade Jones quei gesti li aveva imparati nel suo Galles da bambina, quando il nonno l’aveva portata a taekwondo. «Mio nonno mi vide fare la prepotente con gli altri bambini e mi portò da un maestro perché mi insegnasse a stare al mondo». Aveva 8 anni, non ha più smesso. A Tokyo era andata per vincere il terzo oro olimpico di fila, nel suo sport non c’era mai riuscito nessuno. E neanche lei, per la prima volta ai Giochi senza la sua famiglia sugli spalti. Si era trovata di fronte una di quelle avversarie che di solito liquidava con il suo colpo preferito, il calcio alla testa.

Ma l’altra era Kimia Alizadeh, che a Rio aveva portato all’Iran la prima storica medaglia e subito dopo era scappata in Germania, alla ricerca della libertà. A Tokyo era lì con la squadra dei rifugiati. La sua era una storia più forte, quel giorno non combatteva da sola. Jade invece sì.

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