Ci vogliono tutte madri felici e invece otto donne su dieci, dopo il parto, soffrono di “baby blues”, che il ministero della Salute definisce come «una certa instabilità emotiva che dura circa due settimane» e che, per una donna su dieci (qualcosa di più in effetti: il 10-15 per cento) si trasforma in depressione post partum.

Le aspettative sociali

È per questo che l’approvazione negli Stati Uniti, da parte della Food and Drug Administration (Fda), di una pillola a base ormonale contro la depressione post partum i cui effetti si hanno già al terzo giorno di assunzione (rispetto ai 20 degli altri farmaci in uso oggi), è una buona notizia.

Si tratta della risposta più concreta mai avuta per questa patologia che, molto spesso, passa sotto traccia perché ancora non accettata socialmente: donne schiacciate dai sensi di colpa perché non si sentono allineante con le aspettative sociali sulla maternità.

Ci vogliono tutte madri felici, appunto. E quando non lo sei hai paura di dirlo, chiedere aiuto, esprimere le tue emozioni. Hai paura di essere giudicata inadeguata. L’Istituto superiore di sanità definisce la depressione post partum come «la più rilevante complicanza psichica relativa al puerperioì»” e stabilisce come criteri diagnostici gli stessi del disturbo depressivo maggiore, tra cui molti facilmente riscontrabili nelle donne che hanno appena partorito: disturbi del sonno, agitazione, irrequietezza/rallentamento, riduzione dell’energia, facile stanchezza o spossatezza, senso di colpa eccessivo, difficoltà di concentrazione e di pensare lucidamente. Tutti sintomi che, se non attentamente quantificati e analizzati, vengono liquidati con un “devi trovare il tuo equilibrio con il bambino, ci sono riuscite tutte: ci riuscirai anche tu”. I (pochi) dati a disposizione, però, ci dicono il contrario.

Un disturbo sottovalutato

La depressione post partum è un disturbo sottovalutato? In uno studio del 2016 dell’Istituto superiore di sanità leggiamo che «in Italia, nonostante la disponibilità di semplici ed efficaci procedure di diagnosi e intervento precoce, nella comune pratica clinica, la Dpp (depressione post partum) sfugge per lo più all’attenzione dei clinici. Sottovalutare questo disturbo può rappresentare una carenza in sanità pubblica se si considera la sofferenza soggettiva della donna e dei suoi familiari, nonché le limitazioni e i costi diretti e indiretti dovuti alla compromissione del suo funzionamento personale, sociale e lavorativo»(Palumbo G, Mirabella F, Cascavilla I, Del Re D, Romano G, Gigantesco A (Ed.). Prevenzione e intervento precoce per il rischio di depressione post partum, Istituto superiore di sanità, 2016).

Stessa valutazione viene fatta nel 2018, nel report di un progetto della regione Emilia-Romagna su Misure afferenti alla diagnosi, cura e assistenza della sindrome depressiva post partum a cura di Silvana Borsari ed Elena Castelli, dove si afferma che: «Nonostante i frequenti contatti con servizi e professionisti sanitari durante la gravidanza e nel periodo perinatale, spesso disturbi mentali anche gravi non vengono registrati e riconosciuti. I professionisti della salute mentale e del percorso nascita devono essere consapevoli del problema».

Due studi diversi, fatti a distanza di pochi anni ed entrambi pre Covid ci dicono che la depressione post partum è un disturbo frequente ma al quale vengono prestate poche attenzioni all’interno del sistema di sanità pubblica.

Negli ultimi anni non sembra che le cose siano migliorate e l’unico strumento disponibile, non diagnostico ma di indicazione, è la Scala di Edimburgo, un test che si può somministrare (o auto-somministrarsi, c’è qualcuna che lo ha davvero fatto da sola?) due settimane dopo il parto, utilizzato nella versione italiana in diversi studi e che è disponibile online.

L’ho compilato ripescando dalla memoria le sensazioni della mia esperienza (senza esagerare, giuro) e il risultato uscito in maniera automatica è stato questo: «Il tuo livello di depressione post partum è alto. È opportuno consultare al più presto uno specialista per chiarire insieme a lui quali possono essere i rimedi da utilizzare per tornare a una situazione di benessere».

Chiudo il computer e mi domando perché dopo il parto siano tutti più attenti allo stato di salute della vagina delle donne piuttosto che della loro mente.

La solitudine delle madri

I primi 40 giorni dal parto sono il tempo ritenuto giusto perché una mamma si riassesti con il proprio corpo, mente, figlio, dimensione di coppia, vita sociale. E, nella maggior parte dei casi, lo deve fare da sola.

Incredibile come l’esperienza della maternità, che, nel bene e nel male, è una delle cose più potenti che possano accadere nella vita, sia ancora oggi un percorso di grande solitudine.

Madri lasciate sole per intere giornate con i neonati, tra corpi doloranti, stanchezza, stravolgimenti emotivi e ormonali, responsabilità enormi (schiaccerò mia figlia nel sonno? Riuscirò a curarla? A farla sopravvivere? La dimenticherò in auto sul seggiolino?) mentre il partner lavora (quanto gioverebbe un sistema di congedi parentali da prendere in contemporanea, come supporto? E implementare quelli paterni per condividere il carico di cura?) e i nonni spesso sono assenti, lontani, anziani. Quante donne si sono sentite prese in cura dopo il ritento a casa? Quante hanno avuto modo di esprimere il proprio disagio senza provare vergogna?

Quante hanno avuto gli strumenti per comprendere il proprio disagio in mezzo a pianti, sonno, pannolini, allattamento al seno o biberon? Quante hanno pensato “sto male” e non “è normale”? Se guardiamo i dati – molto pochi, come abbiamo detto – vediamo che il 70-80 per cento delle donne soffre di un disagio mentale legato alla nascita del figlio e che questi, nel 10-15 per cento dei casi, diventano depressione conclamata. Non esiste un sistema di screening nazionale, non ci sono percorsi di accompagnamento standardizzati ma solo progetti spot e i dati di chi viene intercettata.

E le altre? Quante sono le donne “sfuggite” all’attenzione dei medici? Che ne è stato di loro?

Le brochure informative

Però ci sono le brochure informative. Cercando online ne torvo una realizzata per il progetto Prevenzione e intervento precoce per il rischio di depressione post partum finanziato nel marzo 2012 dal ministero della Salute, Centro nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie e condivisa nel 2020 sul sito del Servizio Sanitario della Regione Emilia-Romagna.

Sono alcune pagine sintetiche dove si spiega che cos’è la depressione post partum e quali sono gli squilibri ormonali che si vivono, alcune riflessioni sull’idealizzazione dell’amore materno e sul come, alla fine, troverai la forza per affrontare tutto (eravamo partiti abbastanza bene ma siamo finiti malissimo: l’idea della “forza” delle donne è parte del problema sulla narrazione della maternità).

Il meglio, però, arriva nelle ultime pagine con i consigli pratici per le neo mamme e neo papà, dove non trovo una parola sull’importanza di condividere la cura e il carico mentale, di costruire un modello di genitorialità non incentrato sul ruolo materno e dove il padre non “offre” aiuto ma ha un ruolo chiaro nella gestione familiare.

Il sistema che si propone è sempre lo stesso: la mamma figura centrale (che però deve trovare il tempo per sé stessa, sembra uno scherzo) e il padre accessorio: invece di suggerirgli il modo di essere utile (può fare molte cose: cambiare pannolini, addormentare il figlio, dare il biberon se la mamma non allatta al seno, fare passeggiate fuori, giocare) lo si invita a fare due lavatrici in più. Compito fondamentale, certo, ma che non solleva la mamma dalla relazione simbiotica con il neonato, che può essere causa di disagio, solitudine e carico mentale eccessivo.

Si spera che l’arrivo di un farmaco – in Europa e in Italia si dovrà attendere ancora del tempo per le varie approvazioni – modifichi il modello di approccio a una patologia che, come tutto quello che riguarda la salute riproduttiva delle donne, merita di essere presa sul serio.

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