Ho conosciuto Peter Cameron leggendo Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi 2010, il romanzo con cui in Italia è stato maggiormente apprezzato e che, da più di dieci anni, ormai, continua a incontrare una certa fortuna tra dei lettori e delle lettrici molto giovani, cosa che trovo sempre meravigliosa.

Con James, il protagonista, ho fatto subito amicizia. È un diciottenne insoddisfatto e confuso, che guarda agli adulti come a delle creature misteriose e, al tempo stesso, per niente interessanti: non sarebbe potuta andare altrimenti, per James ho avvertito immediatamente un forte senso di comunione. Finito quello, sono passato a Coral Glynn e a Cose che succedono la notte, Adelphi 2020, per poi approdare ora a Che cosa fa la gente tutto il giorno?, Adelphi 2023. Una raccolta di racconti che tiene fede al titolo, domandandosi, in qualche modo, che cosa faccia, davvero, la gente tutto il giorno.

Una risposta Cameron non ce la dà – ché in fondo la letteratura deve porre delle domande, di certo non offrire delle risposte – ma il risultato è una commedia umana coloratissima e struggente e onesta in ogni suo aspetto. La gente mente e si tradisce, cerca riparo in chi ha accanto e ama con tutta l’intensità di cui è capace, migra senza meta e viaggia lontano da chi la vorrebbe ingabbiare in confini emotivi.

Partirei dal racconto in cui il protagonista, un uomo di mezz’età con una vita borghese abbastanza comune, tiene una cagnolina nello sgabuzzino della propria casa, nascondendola alla moglie e facendola uscire, questa cagnolina, solo la notte, e in gran segreto. In questo racconto, infatti, sono contenuti tutti i temi che sviluppi negli altri (a mio avviso, s’intende). I segreti, l’incomunicabilità, l’impossibilità di conoscere davvero qualcuno.

È interessante che tu lo dica: questo, in effetti, è in assoluto il primo racconto che abbia mai scritto. Mi sarei pure potuto fermare lì, insomma! (Ride, ndr).

Quando l’hai scritto?

A vent’anni, ero ancora al college. E penso tu abbia ragione: la gran parte dei temi di cui ho scritto, da quel racconto in poi, è già contenuta in questa storia.

Perché descrivi i rapporti tra le persone in questo modo, imbibendoli di segreti e bugie?

Quando scrivo non penso al significato della storia, sono interessato soltanto al racconto in sé, ai personaggi e al loro cambiamento nel corso della vicenda.

Nel caso di questo racconto?

Qui mi interessava raccontare un personaggio tormentato, infelice a indossare i vestiti che lui stesso, nel corso degli anni, si è cucito addosso. Un uomo che non si sente connesso alla propria vita, e alla moglie. È questa la ragione per cui inventa la cagnolina.

La cagnolina non esiste, quindi?

Be’, in realtà questa è una decisione che spetta al lettore.

Hai detto che scrivendo a interessarti è il cambiamento del personaggio.

Sì, è così, questo e il loro modo di connettersi agli altri mentre attraversano le loro modificazioni personali.

Vale a dire?

Segreti, bugie, incapacità di comunicare i nostri movimenti interiori più intimi e nascosti sono quel che ci impedisce di metterci in connessione con gli altri, un aspetto che trovo sia interessante, sia cruciale nella vita di ognuno. Ragion per cui, per tornare alla tua domanda precedente, racconto così i rapporti tra i miei personaggi: una relazione in cui non siamo connessi all’altro è destinata a logorarsi sempre di più. Ecco, i miei racconti hanno al centro il momento in cui lo realizziamo, questo aspetto dei rapporti.

C’è qualcosa che possiamo fare per connetterci agli altri?

Credo che la sola via possibile, in tal senso, sia la comunicazione, parlare con chi abbiamo accanto a noi. Da scrittore, sono molto interessato al linguaggio, a come ci metta in relazione agli altri. Parliamo la stessa lingua, io l’inglese e tu l’italiano, per esempio, ma internamente ciascuno di noi ha un linguaggio, un modo di esprimersi, assolutamente diverso, unico. Decodificare i linguaggi interni di chi abbiamo accanto a noi ci permette di connetterci in modo intimo.

L’incomunicabilità è una caratteristica dell’essere umano?

Sì, credo sia così. E credo anche che comunicare, nella maniera di cui stiamo parlando, sia un talento che hanno in pochi.

Da cosa dipende?

Il talento è innato, dipende dalla nostra natura.

Ma cosa differisce queste persone dalle altre?

È come se non avessero filtri, come se riuscissero a esprimere in modo molto articolato quel che hanno dentro senza porre barriere di sorta tra una parte più nascosta del loro essere e il mondo.

Tu questo talento ce l’hai?

No, non credo.

È per questo che scrivi?

È pure per questo, sì. Sono diventato uno scrittore anche perché non sono mai stato granché bravo a comunicare altrimenti, cioè verbalmente. C’è qualcosa nella scrittura che mi consente una libertà maggiore, che mi consente d’essere più onesto.

Quando scrivi, quindi, di filtri non ne hai.

Difficile rispondere. Vorrei non averne, e mi sforzo moltissimo in tal senso: cerco sempre di essere onesto al cento per cento, di fronte alla pagina bianca. Però il mio subconscio, che è inevitabilmente coinvolto, di filtri ne ha. Filtri di cui io stesso non sono cosciente, magari.

Sia in questa raccolta di racconti e sia anche nei tuoi romanzi precedenti, un altro elemento centrale è la solitudine: tanti dei tuoi protagonisti sono soli, ed è per loro ragione di sofferenza.

La solitudine è ragione di sofferenza per tanti.

È possibile che la solitudine nasca dall’incomunicabilità di cui parliamo?

Be’, in fin dei conti cos’è la solitudine? È la sensazione di non essere connessi agli altri e compresi dagli altri, di non essere capaci di comunicare le parti più intime, e importanti, di noi stessi alle persone che abbiamo attorno. È sentirci stranieri nei posti che abitiamo, estranei a chi abbiamo vicino. Però non credo dipenda soltanto da questo, penso che spesso abbia anche altre radici.

Quali?

Sono diverse da persona a persona, questo è ovvio, però per alcuni è qualcosa di insito, la solitudine, come fosse trascritta nel loro dna. Un senso di grande disconnessione che avvertono dalla nascita - e che niente ha a che vedere con l’incomunicabilità.

Il senso di solitudine può anche essere connaturato e non avere radici che affondano nel terreno sociale, quindi.

Secondo me, sì. E non credo sia necessariamente una cosa brutta.

Che intendi?

Ho realizzato, negli anni, di non avere un grande bisogno d’interazioni umane e di star bene anche da solo. Per molto tempo ho pensato d’essere sbagliato e di avere qualcosa che non va, una sorta di stortura. Mi domandavo per quale ragione mi trovassi così bene da solo, perché non sentissi l’esigenza di avere delle persone accanto. E mi dicevo che non era normale. Poi, d’un tratto, mi sono detto che no, invece, se mi piace star da solo va bene, anzi benissimo. È importante accettarsi.

Quindi non ti senti solo quando sei solo?

No. Sto molto tempo da solo. E non soffro.

Mai?

Be’, forse occasionalmente. Però, sai, ho i miei cani, e sto bene. E poi quando leggo, e leggo molto, chiaramente, sono in compagnia! Ci sono tanti modi per connettersi alle altre persone e a un mondo più largo, e leggere è tra questi.

Be’, però è un talento anche questo. Non soffrire la solitudine, intendo.

Probabilmente sì.

Parlando dei segreti: i tuoi protagonisti ne hanno tanti, spesso sono tra i motori delle loro scelte. È necessario averli, dei segreti, per proteggere e preservare noi stessi, la nostra natura, dal mondo?

Per certi versi, sì.

Quindi nessuno conosce mai nessuno.

(Ride, ndr) Conoscere qualcuno in modo assoluto è impossibile. Pensiamo di conoscere chi abbiamo vicino, ma non è così: conosciamo solo le parti che ci viene concesso di scoprire.

È un bene o un male?

Scherzi? È un gran bene! Se sapessimo tutto di tutti ci odieremmo a vicenda, nessuno vorrebbe più stare con nessuno. Nascondere qualcosa, tenere per noi stessi certe parti di noi stessi, è fondamentale.

E allora degli altri cosa conosciamo?

Ciò che gli altri ci concedono di conoscere.

Quel che siamo, e nascondiamo, e quel che mostriamo: sono dei segmenti di noi stessi che nella maggior parte dei casi convivono serenamente, più o meno, mai nei tuoi protagonisti no.

Perché in loro la parte nascosta genera solitudine, e la solitudine li fa soffrire, e non sanno gestirla. I miei personaggi vorrebbero sentirsi connessi agli altri, ma non sono capaci di farlo e da lì deriva il loro dolore.

Personaggi tormentati, i tuoi.

Non mi interessano persone appagate e tranquille, voglio dei protagonisti che sentano l’esigenza di cambiare vita, modificarsi, evolversi perché infelici.

Racconti pure la difficoltà dolorosa di trovare un posto a cui sentiamo di appartenere. Ma esiste un posto del genere?

Come dicevo, le persone cambiano più e più volte nel corso della loro vita e, con loro, cambiano pure desideri e ambizioni. Pensare che quel che vogliamo oggi è quel che vorremo tra dieci, venti, trent’anni credo sia un errore. Quindi, ecco, non credo che si possa traversare l’esistenza alla ricerca di un posto del genere perché è assai probabile che quel posto, presto o tardi, non sarà più in grado di soddisfarci, renderci felici. Una soluzione definitiva, insomma, credo non esista. E vale per tutto, secondo me - dai posti agli impieghi alle relazioni. Poche cose sono destinate a durare in eterno. Reinventarsi poi è fondamentale e per farlo è importante cambiare - sia l’ambiente in cui ci troviamo, sia anche le persone con cui stiamo. Quindi no, un posto del genere non credo esista.

Vale per tutti?

Niente vale per tutti. Vale per alcuni - e di sicuro vale per me.

Che cosa serve affinché questo cambiamento possa avvenire, è necessaria un’incursione del mondo?

Tendenzialmente sì. Ci modifichiamo e reinventiamo quando capita qualcosa che sulla nostra vita ha un impatto forte.

Siamo capaci di coglierlo, il cambiamento?

Non posso parlare per tutti, posso dirti che io non me ne rendo conto granché facilmente. O meglio, mi rendo conto che mi sta succedendo qualcosa che, in potenza, potrebbe avere una grossa valenza nella mia vita ma come reagirò, e come mi modificherò di conseguenza, non lo realizzo finché non è tutto finito, finché non sono effettivamente cambiato. Io cambio spesso, e spesso in modi che non comprendo fino in fondo.

Siamo capaci di vedere la vita solo in retrospettiva?

Certi lati sì. Serve tempo per capire determinate cose.

Parliamo dell’omosessualità ora, nei tuoi romanzi molto presente. Quale credi sia la situazione in America e in Italia?

Penso ci siano molti cambiamenti in corso, ma non credo si tratti di progresso, anzi direi l’opposto. Per un certo periodo le cose in America sono andate bene, si respirava un’aria molto sana. Ad esempio, non avrei mai pensato di vedere legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, è stata una gran, bella sorpresa per me! Pensavo che, pur ammettendo che un giorno fosse successo, io sarei stato morto (ride, ndr). E invece è diventato legale, ed è stato davvero bellissimo.

Poi?

Poi qualcosa si è spezzato, e sono cambiate molte cose. Il pendolo della Storia si è spostato a destra, dalla parte opposta, e per certi versi trovo sia spaventoso e preoccupante. La stessa cosa sta succedendo in Italia.

Come ti senti a riguardo?

Posso dirti come mi sentivo prima, fino a qualche anno fa: speranzoso.

Riesci a spiegarti Donald Trump?

Trump mi lascia perplesso. O meglio, non lui, in effetti, ma chi lo ha votato e vorrebbe farlo di nuovo.

Perché?

Perché lo trovo repellente, e l’idea che milioni di persone lo supportino ancora per me è incomprensibile. È anche spaventoso, in realtà, perché significa che vivo in un Paese abitato, anche, da persone che proprio non riesco a decifrare. E poi che alcune persone siano convinte che la loro religione dia loro il potere di decidere sulla vita degli altri, per me, è folle.

Sulla narrazione dell’omosessualità, invece, cosa mi dici? Il modo con cui viene raccontata è cambiato da quando hai cominciato a scrivere a oggi?

Quando ho cominciato a pubblicare, nelle librerie c’era una sezione apposita, proprio a parte, per la narrativa gay. Io ci passavo davanti o mi ci fermavo per dare un’occhiata ai titoli, e non potevo fare a meno di chiedermi il perché. Di domandarmi per quale ragione ci fosse uno scaffale separato dal resto e in cui si trovassero solo libri che raccontavano storie d’amore gay. D’altra parte non c’era, non so, una sezione per chi aveva i capelli rossi, il naso storto, gli occhi castani, e considerato che la sessualità altro non è che un aspetto della vita di una persona, come i capelli e il naso e gli occhi, mi sembrava assurdo. Oggi, però, ho l’impressione che le cose stiano cambiando, in tal senso (per fortuna). Leggiamo per estendere il nostro mondo, allargare gli orizzonti, ampliare pure i confini che non sapevamo di avere, e per farlo dobbiamo leggere di persone, ambienti, relazioni di cui, forse, non abbiamo mai fatto esperienza. Ecco, oggi penso che questo concetto sia ben più chiaro nella mente di molti.

Tornando a Che cosa fa la gente tutto il giorno?: perché così tanti dei tuoi personaggi tradiscono il proprio partner?

Citerei Anna Karenina di Tolstoj: «Tutte le famiglie felici sono uguali ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Raccontare coppie felici non sarebbe interessante, sia per me sia per i lettori.

Quando inventi i tuoi personaggi parti da un conflitto specifico, quindi?

Non saprei, ma credo di no, e comunque se lo faccio si tratta di un’operazione inconscia. Le storie che scrivo arrivano sempre in modo molto misterioso, in un modo che io stesso non sono capace di comprendere. È per questo che dico sempre, quando parlo di scrittura, d’essere alla mercé del mio subconscio e di non averne alcun controllo. Ed è per questo che passano anni, anche molti, tra la scrittura di un libro e l’altro: se non riesco a farlo non mi forzo, che tanto a decidere non sono io. È un processo su cui non ho alcun controllo quello della scrittura.

AP

In qualche modo, credi di scrivere anche di te stesso?

Sì, certo. Non c’è mai niente di autobiografico, non racconto cose che mi sono capitate, ma attingo tantissimo dalla mia vita emozionale.

Conosci Elena Ferrante?

Ma certo.

Ferrante, in I margini e il dettato (e/o 2021), dice che, secondo lei, in ogni scrittore e in ogni scrittrice c’è una creatura, e che è questa creatura la vera responsabile della scrittura.

Sì, sono d’accordo con lei! E si tratta di una creatura misteriosa, secondo me. Una creatura che non posso controllare: sparisce per lunghi periodi di tempo, poi torna e mi smuove dentro un’insopprimibile esigenza di scrivere.

Come ti senti nei periodi in cui non scrivi?

Sto bene, a dir la verità, ma sono un po’ triste.

Perché?

Perché quando scrivo mi sento connesso al mondo. Però ho realizzato che non c’è niente che possa fare se non aspettare, pazientare, che la scrittura – o, come dice Ferrante, la creatura – torni.

Peter, cosa diresti al te stesso giovane, il te stesso 25enne?

Niente.

Niente? Davvero?

Niente, davvero. Potrei tornare indietro nel tempo, per esempio, e riscrivere i libri di quand’ero giovane, ma che senso avrebbe? Quei libri sono nati da una certa esperienza, sono figli di determinati periodi della mia vita, ed è giusto e doveroso che siano scritti nel modo in cui sono scritti. Rispetto molto quel me ragazzo, ha lavorato bene, credo, e tutte le esperienze che ha fatto sono servite a modellarlo. I consigli non sempre aiutano, a volte l’esistenza non possiamo far altro che attraversarla senza sapere esattamente dove stiamo andando, che cosa ci capiterà strada facendo. E va bene così.

E va bene così.

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