Sui cellulari riaccesi in simultanea a proiezione finita imperversa uno tsunami di faccine brutte, gli emoji che da un pezzo hanno rimpiazzato l’arcaica stellina singola del punteggio più basso. Ed è una vera ingiustizia, perché Diva Futura, il film così bullizzato, ci ha resi edotti di una grave lacuna nella nostra memoria dell’ultimo squarcio di Novecento. Non ci eravamo accorti – e adesso lo sappiamo –  che con la sua agenzia Diva Futura, crogiuolo di talenti che hanno fatto storia del costume, da Cicciolina a Moana Pozzi a Eva Henger, Riccardo Schicchi – cito dal catalogo ufficiale di Venezia 81 – «ha rivoluzionato la cultura di massa trasformando l’utopia hippy dell’amore libero in un nuovo fenomeno: il porno».

I 128 minuti dell’epopea narrata da Giulia Louise Steigerwalt in realtà fanno molto di più. Ci illuminano su un fantasioso folletto dell’erotismo innocente che ha alimentato di sogni le tristi notti di tanti maschietti italiani. Non è mai troppo tardi per riconoscere la vera grandezza.

Questa è la favola bella del quarto e penultimo film italiano in concorso, basata sul memoriale della fedele segretaria-factotum di Schicchi, Debora Attanasio (Non dite alla mamma che faccio la segretaria – Memorie di una ragazza normale alla corte del re dell’hard, del 2003). Diva futura, in sala dal 4 settembre con Piperfilm, parte col brio della commedia pop per poi sterzare sul melopic (biopic+ mélo) e pian piano librarsi nei limpidi cieli dell’agiografia.

FOTO LUCIA IURIO

Una fiaba

Determinante il contributo di Pietro Castellitto, che investe il suo capitale di fascino e talento (possiede entrambe le cose) nella canonizzazione del nostro profeta del porno. E a confermare che di fiaba si tratta, non solo e non necessariamente «per adulti», c’è una singolare penuria di tette e culetti al vento, anche se su queste e altre gioiose parti anatomiche (da detrattori e detrattrici ahinoi bollate come mercificazione sfacciata del corpo femminile) Schicchi ha fondato il suo breve ma intenso impero. 

Trovo irrispettoso, oltreché dissennato, criticare un’autrice oltretutto dotata e premiata (per l’opera prima Settembre, nel 2022) per quello che ha messo o non ha messo in un film.

Da cittadina ordinaria di buona memoria che in quegli anni Ottanta già calpestava i selciati di questo pianeta, ricordo che il Partito dell’Amore altro non era che una furba trovata promozionale, che i vagoni di carne giovane e soda importata dall’Ungheria solo in minima parte si incanalavano verso fama e successo e che non fu l’accanimento poliziesco a far denunciare Riccardo Schicchi per associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione.

FOTO LUCIA IURIO

Le sosia poco epocali

Puoi rileggere questa iperbolica scalata al successo di un tycoon casareccio con umana simpatia, puoi scavare nei suoi risvolti romantici e fragili, ma tutto è relativo. Con le sue oscure attrici, ovvero Lidija Kordic, Denise Capezza e Tesa Litvan – le alter ego di Ilona Staller, Moana Pozzi ed Eva Henger nella finzione – Steigerwalt è di una generosità commovente.

Non parlo di Barbara Ronchi, che interpreta Debora Attanasio, non ha bisogno di misure 90-60-90 e in qualsiasi ruolo si cali fa il meglio possibile. Alle sosia (molto meno epocali) delle pornostar la regista affida scene madri, lacrime, exploit drammatici che metterebbero perfino Anna Magnani in difficoltà. E una crisalide di Nannarella, nella brigata, è francamente difficile da individuare.

Chi ci riesce vincerà un viaggio premio negli storici uffici di via Cassia. E a proposito, perché non reintitolare a Schicchi la strada consolare?

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