Forse non è interessante, anzi senz’altro non lo è, ma ho smesso di piangere solo dopo mezz’ora che sui Leoni di Venezia 78 era calato il sipario. Ho imparato a evitare i pronostici, perché non è uno sport divertente. Non vado a caccia di indiscrezioni. E soprattutto era insensato provare a entrare dentro la testa di un presidente di giuria come Bong Joon-ho, che prima di far inginocchiare ai suoi piedi tutta la Hollywood che conta per Parasite ha girato scherzetti come Snowpiercer, Memorie di un assassino, perfino un’anti-fiaba animalista per Netflix, Okja, da spezzare il cuore.

Sapevo, a scatola chiusa, che un presidente così non prometteva cantonate, con accanto giurati come Saverio Costanzo e la Chloè Zhao di Nomadland, Leone d’oro a Venezia 77 e Oscar subito dopo. 

Non mi sarei mai aspettata il Leone d’oro a L’événement. Non conosco nessuno che in questi giorni lo contemplasse nella esigua rosa dei film “papabili”. C’era un partito nostrano di maggioranza che scommetteva su Sorrentino e su È stata la mano di Dio, bisticciando con la fazione di minoranza, mobilitata a favore di Mario Martone. Ma per apprezzare davvero l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io devi essere addicted a Miseria e nobiltà, sapere di Benedetto Croce e del “vate” D’Annunzio. Devi conoscere già certa cultura italiana.

Il “pink washing” non c’entra

La “tegola buona” di questo Leone d’oro non merita di essere avvilita con la retorica sul cinema “al femminile”. Escludo che questa malinconica espressione – “al femminile” – l’abbia coniata una donna. Da molte parti, lo so, si farà tutto un mazzo: l’argento per la regia a Jane Campion, l’argento per la sceneggiatura a Maggie Gyllenhaal, il repulisti nella sezione “Orizzonti” di Full Time (A’ plein temps), che con la sua madre lavoratrice guerriera “a tempo pieno” incassa Laure Calamy migliore attrice ed Eric Gravel migliore regia. Magari si metterà nel mucchio anche la Coppa Volpi a Penèlope Cruz, perché in Madres Paralelas di Pedro Almodovar i maschi sono ectoplasmi.

Bong Joon-ho – Dio l’abbia in gloria – ha tenuto a precisare che su L’événement in giuria c’ è stata assoluta unanimità. Non ha vinto perché va di moda premiare le donne, o per la tanto strombazzata dittatura del politicamente corretto, che a Cannes – comunque- pesa non poco. Ha vinto perché ha un rigore e una sobrietà francescana che inchiodano. Ha vinto perché il resoconto asciutto e implacabile dell’aborto illegale vissuto a 23 anni da Annie Ernaux (l’evento è uscito in Italia con L’Orma, nel 2019 ), nella Francia che come l’Italia spediva donne e medici ‘complici’ dritti in galera, è un’esperienza cinematografica che parla a tutti, senza distinzione di sesso.

Un atto politico

Chiaro che mentre le donne polacche scendono in piazza da mesi e negli Usa i medici antiabortisti sono in crescita esponenziale un film così è un atto politico. Sappiamo bene che nessun diritto conquistato è intoccabile, e la presenza di celebrità come Sandrine Bonnaire e Anna Mouglalis in piccoli ruoli ha una valenza militante precisa.

La mia generazione ha vissuto il “prima”, e lo sa. In prima o per interposta persona conosce le tappe del calvario di Anne (Annamaria Vartolomei), studentessa brillante che non intende sacrificare sogni e speranze a una maternità non voluta. L’ostracismo dei medici è niente, rispetto alle agghiaccianti pratiche “casalinghe” e alla morte sfiorata sotto i ferri della mammana. Il film è più sconvolgente del libro, perché ti costringe a guardare. Tutto, spietatamente e senza sconti.

L’influenza dei libri

Audrey Diwan è una scrittrice e sceneggiatrice di origini libanesi al suo secondo film da regista. E i libri hanno invaso gli schermi di questa mostra. Guardiamo solo ai Leoni. Per la divina Campion il romanzo di riferimento del suo The Power of the Dog è l’omonimo cult “maledetto” pubblicato da Thomas Savage nel 1967. Facile liquidarla come una storia western di bovari gay, zona Brokeback Mountain.

Nel Montana del 1925, tra i due fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), che gestiscono il ricco ranch di famiglia, cova la brace. George è mite e sensibile, Phil ostenta una brutalità da bovaro, anche se ha fatto studi classici: castra gli armenti a mani nude e vive nel culto del mentore – un "vero uomo” – che lo ha forgiato. Quando George sposa Rose (Kirsten Dunst, quasi irriconoscibile), «la vedova di un suicida con un figlio rimbambito», è guerra tra le mura di casa.

Cosa abbia sedotto Campion in questo mix di natura matrigna e sensualità repressa è fin troppo evidente:  è la formula di Lezioni di Piano, che le ha conquistato la Palma d’oro di Cannes 1993, la prima mai assegnata a una donna (e l’unica, fino a quest’anno). 

Quando inizia il film?

È un film di violenza sorda e di sottili crudeltà: ci vuol poco a capire che dietro le torture inflitte da Phil a Rose e al ragazzo “effeminato” da bullizzare si nasconde il conflitto di un gay sotto traccia. Da antica fan di Campion mi sono inchinata davanti ai “non detti”, al contrasto tra il fasto lugubre della sperduta “casa Usher” e la desolazione di panorami grandiosi, ma sul momento ho pensato che la mia amata, forse, aveva sbagliato romanzo.

Ellissi e tempi estenuati risulteranno probabilmente indigesti al pubblico del “pane al pane”. A volte aiuta confrontarsi umilmente con quelli bravi. Michel Ciment, decano dei critici francesi e direttore di Positif, mi ha dato una salutare scrollata. Campion forever, anche perché eravamo in astinenza da dodici anni, quelli assorbiti dalla sua serie tv Into the Lake.

Molto più discutibile premiare Maggie Gyllenhaal, attrice colta al suo primo film da regista, per la sceneggiatura di The Lost Daughter, da La figlia oscura di Elena Ferrante. Scherziamo? È come premiare Ferrante. Io non ho letto il libro, e dopo il film non lo leggerò. È quel tipo di film che stimola il quesito classico da spettatore stremato: «Ma perché l’hanno messo in concorso?». E questo in barba a un supercast capeggiato da her majesty Olivia Colman, con Dakota Johnson, Ed Harris e Peter Sarsgaard come contorno.

Per burla, uscita dalla proiezione, ho abbozzato una non-recensione di pura goliardia che iniziava così: «Si spengono le luci, compare Olivia Colman, si intravedono le nobili rughe di Ed Harris, e tu aspetti. Aspetti che il film cominci. Passa mezz’ora e niente da fare. Allora cerchi di ingannare il tempo chiedendoti come hanno fatto a trovare una spiaggia greca – l’unica, forse, in tutto l’Egeo – che sembra il fac simile di Coccia de Morto. Spiaggia su cui Olivia, tra un bagnetto e due rigirate sul lettino, sta probabilmente chiedendosi a sua volta quando cazzo comincia il film». Lo so, non sono esercizi da critica raccomandabile. Infatti io non lo sono.

Paolo Sorrentino con il leone d’argento gran giuria (Piergiorgio Pirrone - LaPresse)

In corsa contro il tempo

Per la cronaca, durante la premiazione ho versato le prime lacrime quando hanno chiamato sul palco Laure Calamy, miglior attrice a Orizzonti per Full Time. Lanciata da una delle serie tv più amate di questi anni, Chiami il mio agente (era la spiritosa Noémi, segretaria-amante del capo), Calamy è la rivelazione dell’ultimo cinema francese. Ho pianto perché nel film di Gravel  Laure-Julie sintetizza una condizione che ogni mamma lavoratrice separata, e spesso sottoccupata, conosce fin troppo bene. La vita è un’eterna corsa contro il tempo.

Quando Parigi va in tilt per gli scioperi generali del 2020, i trasporti pubblici paralizzati rendono la sfida ordinaria una mission impossibile. Non è un film epico, ma Julie, cameriera in un hotel del centro, è una supereroina della realtà. Come li definiva, da folgorante minimalista, Grace Paley? Piccoli contrattempi del vivere.

Quelli che… tifano ai Festival come per le partite ai mondiali, e contano i gol azzurri, non li capisco. C’è da brindare per il Gran Premio della Giuria a Sorrentino, per il Mastroianni al suo Filippo Scotti, per l’acuto premio speciale a Il buco di Frammartino. Non perché sono italiani, perché sono bellissimi film. Toni Servillo perdoni i giurati, se può: resta comunque quel gigante che è.

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