La città eterna è diventata più rotonda: otto sculture monumentali di Fernando Botero, l’artista del volumen, sono diffuse sul centro storico della capitale. Le sue formose creature avevano già conquistato le piazze di New York, Parigi, Shanghai, Tokio, Mosca, Venezia, Madrid, Berlino. Ma il suo sogno di portarli nella città imperiale, si è avverato dieci mesi dopo la sua scomparsa. Per la prima volta le sue figure si innalzano verso il cielo di Roma.

Il legame con l’Italia

Il colpo di fulmine tra Botero e l’Italia viene da lontano. È arrivato per la prima volta quando aveva 20 anni. Pittore e scultore in erba, si era comprato una Vespa sgangherata per attraversare la terra del Rinascimento. Il suo viaggio iniziatico nel Quattrocento italiano sulle orme dei maestri, lo aveva portato in Toscana, in visita a musei e chiese. «Un’immersione totale», ricordava lui, nel periodo più sublime e luminoso della storia dell'arte.

Il vespista veniva dalla Colombia, periferia del mondo. Nato a Medellín, (1932-2023) cittadina retrograda e clericale, fin dalle scuole elementari aveva dimostrato un tratto preciso: i suoi quaderni – a sfogliarli oggi – richiamano un’enciclopedia illustrata per bambini. Ma la sua famiglia non aveva risorse per quel disegnatore incontenibile e acquarellista precoce: la madre sarta, rimasta presto vedova, non poteva neppure comprargli i libri d’arte.

Per questo il ragazzo Botero investì tutti i settemila pesos colombiani vinti con il secondo premio del concorso nazionale di pittura per realizzare il sogno di conoscere l’arte europea dal vivo. Nel 1951, in tasca un biglietto di terza classe, attraversa l’Atlantico su una nave per Barcellona. Viaggia con un budget risibile, con cui però risale la corrente del colore: a Madrid il Museo del Prado, a Parigi il Louvre, dove lo incanta il miracolo pittorico italiano.

Segue allora il magnete oltre le Alpi: prima tappa, la trecentesca basilica di San Francesco ad Arezzo, dove trova il ciclo di affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero Della Francesca. La sua inchiesta sulle tracce di Piero lo porta nella terra natale del maestro quattrocentesco, a Sansepolcro. Lì la Resurrezione di Cristo è un colpo di fulmine, avrebbe voluto restare a vivere dentro l’affresco: «Fu una rivelazione, un’enorme impressione, come un lampo di luce», raccontava Botero.

A Firenze si iscrive all’Accademia di Belle Arti, segue i corsi di Storia dell’Arte con Roberto Longhi. Dopo studiò Tiziano a Venezia. Quando tornò in Colombia due anni dopo, Botero era già un figlio del Rinascimento plasticamente modificato.

La sontuosa abbondanza

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Impregnato dai classici e in grado di padroneggiare la tecnica italiana, si lancia alla conquista del volume. Dal 1956 i suoi pennelli aumentarono tutto ciò che dipingevano, gonfiando i personaggi del suo nuovo universo.

Con il proprio stile definito e 200 dollari in tasca progettò la tappa successiva: New York, nel pieno degli anni Sessanta, quando trionfava l’arte astratta, così aliena dal figurativo alla quale il colombiano restava aggrappato. Le sue figure sontuose raccolsero pesanti critiche, erano definite “caricature”. E nonostante nessuna galleria accettasse le sue opere, non cedette alle tentazioni dell’avanguardia artistica e del mercato.

Da quel periodo amaro in cui il suo stile era stigmatizzato, lo salvò ancora il Rinascimento italiano. Botero dipinse una versione della Monna Lisa, a partire dallo sguardo misterioso e il sorriso enigmatico suggeriti da Leonardo, ma con il candore di una bambina grassottella di 12 anni. Il colombiano recuperò l’infanzia di Monna Lisa e lei ricambiò, spalancandogli le porte dell’arte internazionale.

Il dipinto di 211 x 195 centimetri, ad olio e tempera, fu acquistato dal museo MOMA di New York, dov’è ancora esposto, contribuendo a diffondere e consolidare il nuovo stile che fa esplodere le forme. Oggi oltre quattromila sue opere sono esposte in diversi angoli del pianeta.

La Formosa popolarità

Ma è ancora in Italia che la popolarità del boterismo e la sua corrosiva critica sociale e politica trovò osservatori attenti quanto dissonanti rispetto alle convinzioni dell’artista. Nel 1981 Alberto Moravia in un saggio dedicato ad una mostra del maestro colombiano nella galleria “Il Gabbiano” a Roma, osservava: «La grassezza è un sintomo? Ma un sintomo di che? Di un disagiato rapporto col reale. L’obesità in Botero è un fatto soprattutto psicologico».

Botero replicò che era ridicolo provare a risolvere i conflitti interiori dei suoi personaggi: non era interessato alla personalità delle sue creature perché «non si trattava di analizzare la psiche, ma di apprezzare la loro plasticità».

Leonardo Sciascia firmò l’introduzione al catalogo della mostra “La Corrida”, allestita a Palermo a marzo 1988. La intitolò “Un biglietto per Botero”. Sciascia si domandava, come mai «figure così oggettivamente sgradevoli» riscuotessero tanto successo sia di pubblico che di mercato. Perché – argomentò –  «non sono realisticamente dipinte, appartengono alla surrealtà. A parte il fatto – perché essenziale – che sono di valente, eccellente fattura».

Il legame con Gabriel García Márquez

Il suo mondo bucolico, pieno di zie zitelle, di grotteschi burocrati, di orchestre, sante, cardinali e prostitute si è globalizzato e gli intellettuali l’hanno battezzato con il nome di “Boteria”. La versione plastica di Macondo, l’equivalente del “villaggio globale” creato dai romanzi da García Márquez. Botero non è d’accordo però entrambi vengono considerati esponenti del realismo magico: per lui, la sua arte è la pura realtà. E anche il Nobel per la Letteratura sosteneva lo stesso: «Nei mie libri non si trova nulla che non abbia un sottofondo di realtà». Ma tutti e due con la propria lente da negromanti esagerarono e deformarono la realtà per vederla meglio, mettendola a fuoco.

I due ragazzi di provincia, esponenti della classe media, si incrociarono da giovani: Botero a sedici anni illustrò La siesta del martedì, uno dei primi racconti di García Márquez. E molti anni dopo, quando erano ricchi e celebri, l’artista realizzò una copertina per il romanzo Cronaca di una morte annunciata. Uomini di sinistra, entrambi diffidavano dell’arte militante che «non fa cadere i governi». García Márquez diceva «è mio dovere scrivere bene»; Botero concordava, «il pittore non può mettersi ad urlare in un quadro».

Affascinati dall’arte italiana, erano arrivati nella penisola negli anni Cinquanta: Botero alla ricerca del Rinascimento, García Márquez del cinema neorealista. Tanto l’uno quanto l’altro, coltivarono il locale per convertirlo in universale, ma a separarli è l’abbondanza. La famiglia Buendia nella sua saga Cent’anni di solitudine subì le peste, la guerra e la fame molto più dei ben nutriti cardinali, dei presidenti satolli e degli altri mattatori dei quadri di Botero. Mentre a Macondo abbondavano l’amore e l’oblio.

Tre delle sculture esposte a Roma, fino al primo ottobre, provengono di Pietrasanta, nota per le fonderie da cui uscirono le sue creazioni monumentali. Per 40 anni trascorse li l’estate e aveva casa e laboratorio. L’affetto con il comune della Versilia e reciproco. Nel 1993 ha ricreato il Paradiso e l’Inferno sulle pareti della piccola chiesa della Misericordia. Nei due affreschi, la bandiera italiana, gli angeli, la Vergine, il diavolo, i falò e pure gli scheletri sono tutti sovrappeso. All’Inferno ha dipinto sé stesso. Ha anche donato un portentoso guerriero di bronzo per piazza Matteotti, che oggi veglia sulla città in cui riposano le cenere del ragazzo folgorato dal rinascimento.

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