«Il nostro rapporto con la critica? Sempre buono, perché non gli diamo confidenza»: esorcizzato dall’ironia di Salvo Ficarra, il risarcimento della critica italiana a decenni di ostracismo ostinato si è celebrato alla Mostra Internazionale del nuovo cinema di Pesaro, che per chi non lo sapesse da sessant’anni è il Festival storico dei critici italiani.

Esattamente al pari di Ficarraepicone (una sola parola secondo il pubblico, che li interpella così anche singolarmente) ricordo perfettamente che tra i misfatti attribuiti a uno dei nostri migliori direttori di festival e organizzatori culturali di sempre, Marco Müller, ci fu la scelta di chiudere la Festa del cinema di Roma del 2014 con il loro Andiamo a quel paese.

Uno scandalo e un sacrilegio deturpante per il cinema “serio”. Non ricordo l’estensore diretto dell’attacco  – che parlava a nome di una maggioranza non silenziosa – ma giuro che non è oblìo diplomatico. A Pesaro si è appena sancita la sterzata ufficiale, con la retrospettiva integrale dei film della coppia di autori-attori-sceneggiatori-registi-produttori palermitani e una dotta monografia per i Saggi Marsilio, Ridere sul serio. Il cinema e i film di Ficarra e Picone.

Come precisa di direttore di Pesaro, Pedro Armocida, una delle esperienze più significative e amate del cinema e della televisione italiane viene finalmente ricostruita «smarcandosi da ogni preconcetto snobistico verso le forme popolari».

Quella che segue è una “conversazione continuamente interrotta” – in puro stile Flaiano - spalmata su due giorni e varie location: una carrozza ferroviaria di andata, un paio di cene, un convegno a più voci e un bagno di folla nella pesarese Piazza del Popolo. Avvertenza: non sono neutrale, Salvo e Valentino per me sono affettivamente e culturalmente “famiglia”. 

La critica (cinematografica)

Spaccata anticamente tra area crociana e marxista, da noi la critica è stata sempre nemica della commedia. Pietro Germi (non schierato politicamente, e uno dei riferimenti di Fic e Pic) è un caso emblematico di sciacallaggio, ma in buonissima compagnia. «È una ghettizzazione che riguarda ormai chi ancora ce l’ha, poverino»,  dicono loro, «superata dal tempo e dagli eventi. Benigni, Troisi…cos’altro deve fare ancora un comico?».

L’ora legale è stato il primo film italiano a vincere il premio del pubblico perfino in Cina. E poi, filosoficamente, avendo portato in scena in teatro anche Le rane di Aristofane: «Nella Grecia antica c’erano tornei annuali tra le commedie. A noi contemporanei è arrivato solo Aristofane, perché le arricchiva di contenuti politici “alti”. È un pregiudizio che è sempre esistito, sono perplessità millenarie. Facevano premio i tragici, Euripide, Sofocle. Chi ha pregiudizi di questa natura, non lo cambierai mai». 

Ma quando citi Charlot (che ispira il nome della loro società di produzione, la Tramp), e Buster Keaton, e Stanlio e Ollio, i Maestri predecessori, i due per minimizzare ci ridono sopra: «Come no, tutti colleghi!». «Colti? Vi preghiamo di non scrivere queste cose di noi!». 

Neanche per sbaglio li trovi mai tra le nomination dei premi italiani che contano: li premiano solo per gli incassi, come i cinepanettoni. Tanto si sa che i premi italiani obbediscono ad altre leggi, diciamo così, di brand, finanziamenti pubblici e sistema.

Però nel libro-saggio Marco Müller spiega che i due “nati stanchi” (il titolo del loro primo film) «non hanno mai smesso di portarci notizie aggiornate di “quel paese” e “quel mondo” dove viviamo»: una comicità continuamente arricchita di riferimenti all’oggi.

La critica (sociale)

Smontano sistematicamente gli incensatori. Ficarra: «Vogliamo rassicurarvi sull’ipotesi che siamo intelligenti o che c’è un pensiero. Non scrivete queste cose, e ci spiace se dovesse anche solo sfiorarvi questa idea. Io sono stupido, Ficone», vedete la faccia, «è tutto un programma». Picone: «E anche ignoranti, non solo in un campo, in tutti i campi: come diceva Pino Caruso, proprio ignoranza enciclopedica». Ficarra: «Quindi se per caso vi fosse arrivato un messaggio dai nostri film, noi ce ne scusiamo!».

Ciononostante, Andiamo a quel paese, uscito nel 2015, «parlava della disoccupazione in Italia e di come tanti giovani sono costretti a sfruttare le pensioni dei parenti più anziani per tirare avanti». E L’ora legale? «Sui politici si è sempre fatta satira, si dice sempre che sono ladri e furfanti. Noi però ce la siamo presa con noi cittadini. Quando siamo arrivati nel paese dove abbiamo girato il film, il comune era commissariato. Il sindaco era sotto processo per peculato. Tutto il paese ha visto il film, e alle elezioni successive ha comunque votato uno che aveva già una condanna passata in giudicato. E noi ci siamo chiesti: esattamente, cosa hanno capito? Era perfetto lo slogan elettorale del sindaco “guasto” del film (un grande Toni Sperandeo, l’uscente sindaco Patanè, il peggio del peggio della politica): “Vota Patanè, senza chiederti perché”. Slogan che si adatta magnificamente alle ultime elezioni: Vannacci non fa rima con “perché” ma è solo uno dei tanti esempi».

E la mafia? «Nei nostri film – e nella nostra serie per Netflix, Incastrati – è sempre presente. Ma siamo rimasti esterrefatti quando La matassa, dove in realtà era un tema secondario, nei titoli dei quotidiani è stato immediatamente etichettato come “film antimafia” – (Picone ride) – Tant’è che per tutta la conferenza stampa ho dovuto dire: “Guardate che l’ha scritto lui, non l’ho scritto io! Certi discorsi ti sfuggono di mano”». 

La chiesa cattolica

«Il cattolicesimo, religione maggioritaria nei nostri territori, nei nostri film c’è sempre. Preti di tante identità e nature. Quello di Pino Caruso era aperto: “Onora il padre e la madre/ Se hanno ragione”. Quello di L’ora legale, Leo Gullotta, era infuriato contro la pretesa di far pagare l’Imu agli edifici ecclesiastici, e diventava il capopopolo della rivolta contro il sindaco onesto.

Con Santocielo siamo arrivati al massimo, ipotizzando Dio destabilizzato dalla democrazia e un Arcangelo Gabriele pasticcione che faceva concepire a Salvo il nuovo Messia. Come la mettiamo con le nostre politiche rispetto alle adozioni di coppie dello stesso sesso, per non parlare di procreazione delegata? Ci sembrava interessante intervenire nel dibattito attraverso un “errore”».

Quanto a Il primo Natale, «era un film concepito per quel finale. La questione in ballo era il diritto di gente che scappa da situazioni tremende di essere accolta».

Le origini

Chi scrive ha scoperto e amato Ficarra e Picone già su Rai3 (la mia rete), nel dandinesco Ottavo nano. «Nello sketch eravamo due militanti di base comunisti in una sperduta sezione di paese. E avevamo istituito un telefono pubblico (“la sottilissima linea rossa”, in omaggio a Malick) cui tutti i militanti si potevano rivolgere, perché ci preoccupava lo scollamento tra base e gruppo dirigente. Ma era permessa una sola domanda, per non intasare la linea. Era bello perché era una gag tutta silenzi. Al “via con le telefonate!” non chiamava nessuno. Era il 1999 ed era un modo per dire che ‘allora’ c’era uno scollamento tra vertici e base. Solo allora, naturalmente...». 

L’ultimo kink

Il kink di adesso, la fissazione, detta in gergo corrente, è il ponte di Messina. Valentino: «Non poteva farsi fare una piramide come tutti gli altri, Salvini, se voleva farsi ricordare?». Salvo: «I turisti scappano da Agrigento perché manca l’acqua anche per 6/8 giorni. Se non si fa il ponte il problema non si risolve. Perché l’acqua chiaramente scende dal ponte a cascata e arriva ad Agrigento».

In realtà è un loro tormentone di lunga data, ma un tempo era pura irrisione di fantasia: «Non hanno capito l’ironia, e lo vogliono fare davvero!». «Per burla, lo immaginavano ai tempi così sfarzoso e superdotato da poter pretendere autonomia e indipendenza politica. La capitale era già bell’e pronta: Pontida!». 

© Riproduzione riservata