Per me è davvero importante rivendicare sempre e comunque la libertà di vestirci «come cazzo ci pare» (cit. Michela Murgia). Fatta questa premessa, però, devo ammettere che tutte le volte che vedo quelle donne che sono riuscite finalmente a conquistare posizioni di potere e di rappresentanza, a rompere il famoso tetto di cristallo, non posso non riflettere su come sia difficile per noi trovare un giusto bilanciamento tra una femminilità che non deve essere negata, e un necessario equilibrio vestimentario specialmente in situazioni pubbliche. Quelle di cui poi circolano, in maniera permanente, video, fotografie moltiplicati in maniera esponenziale dai giornali, dalle televisioni, dai social.

C’è una organizzazione inglese, Dress for success, il cui scopo è quello di «consentire alle donne di raggiungere l’indipendenza economica fornendo una rete di supporto, abbigliamento professionale e strumenti di supporto etc.». Gli abiti sono selezionati in base al tipo di colloquio e lo styling è affidato a volontarie definite dresser. Per gli uomini è davvero facile, loro hanno quella divisa, che certamente può essere declinata in molti modi nei tessuti, nelle sfumature di colore, nelle cravatte o altri accessori, ma che comunque rimane la più potente e anche sexy delle uniformi perché rivendica una precisazione degli attributi maschili: il pantalone che rimane indossato ma si può aprire sul sesso, la camicia stretta sul collo a evidenziare il pomo d’Adamo.

Il modo di vestire delle donne di potere, il power dressing femminile continua a essere under costruction. Il completo giacca con i pantaloni o con la gonna, aggiornato nelle forme della moda del momento, rimane una delle divise più sfruttate, purtroppo il più delle volte senza uno stile personale. Una scelta che molte donne, raggiunto il potere, reputano necessaria. Mi viene in mente una campagna pubblicitaria di Donna Karan degli anni Ottanta, in cui la finalmente prima donna presidente degli Stati Uniti prestava giuramento con il solito completo d’ordinanza, seppur firmato.

Ma nonostante quel «le donne non vogliono essere notate per come si vestono, ma per quello che dicono» ripetuto spesso non solo dalle femministe, è il power suit progettato da Giorgio Armani a rimanere il punto di riferimento. Manifesto indossabile di empowerment femminile perché non nasce per abdicare a una idea di femminilità, ma come affermazione di un nuovo status dopo le conquiste delle donne negli anni Settanta: diritto all’aborto, divorzio, nuovo diritto di famiglia.

All’alba degli anni Ottanta, l’immagine delle femministe trasandate in gonnellone a fiori e zoccoli lascia spazio a una immagine di donna diversa. Si prendono a modello donne riconciliate con gli uomini e che hanno ottenuto il successo nella vita professionale. Marisa Bellisario, prima donna italiana a diventare amministratore delegato di una grande società (Italtel) diventa il santino: completo Giorgio Armani, pettinatura punk, sguardo diritto. Un look perfetto per i media.

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Le mise del G7

Le mise della nostra premier Giorgia Meloni in occasione del G7 in Puglia, momento di grande visibilità per lei e per il nostro paese, mi ha riportato all’annosa questione di che cosa possa essere un power dressing al femminile. Per esempio ho trovato sempre meravigliosa nelle sue mise, prima da first lady e poi da presidente, Robin Wrigth in House of Cards. E lei certo non vestiva solo in giacca e pantaloni. Quindi non è quello che indossi, ma come lo indossi. Come ti senti dentro quello che indossi.

Quel tailleur pantalone rosa chiaro con cui accoglieva i colleghi di G7 non era sbagliato, ma i pantaloni troppo larghi, troppo lunghi, non agevolavano i movimenti e la costringevano a fare attenzione agli scalini, per esempio.

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Come l’abito nero per la cena di gala, con quella rete sul decolleté, sul petto e sulle braccia, e quella forma piuttosto informe, non le rendeva onore. Erano una scelta banalizzante che non teneva conto di una personalità forte che vuole essere protagonista e agire velocemente.

Premetto che lei in questi due anni ha fatto un lavoro straordinario sulla sua immagine, dai capelli alla Chiara Ferragni, al trucco, a una serie di giacche e camicie che quando la vediamo a mezzo busto la valorizzano. E ha abbandonato quelle grandi borse bianche che le pendevano dal braccio nei primi mesi a Palazzo Chigi. Il mio non è un discorso che si riferisce alle posizioni politiche, è piuttosto una riflessione sul potere che dobbiamo riconoscere alla moda e sulla sua rilevanza nell’immagine che diamo di noi stessi.

La soluzione

Il bello è che non ho una risposta, non ho consigli da dispensare come faceva Diana Vreeland con Jackie Kennedy (suo il consiglio di mettere, in una glaciale giornata di gennaio, l’anacronistico manicotto di visone il giorno del giuramento). Le donne della politica sono una categoria ampia che ne contiene almeno due. Quelle che fanno politica e le first lady, e tutte sono soggette al public scrutiny: un giudizio continuo che non fa differenza tra il pubblico e il privato.

Michelle Obama è stata apripista. Lei che ha annullato la distanza tra la first lady e la gente che esisteva con Jackie Kennedy, ha voluto essere un modello accessibile e reale. La prima first lady afroamericana. E chissà cosa si prepara a fare, anche lei brillantissimo avvocato. Obama che si permetteva improbabili vestiti a fiori, arricciati in vita, dai colori sgargianti.

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Contrariamente a Condoleezza Rice, altra afroamericana, segretaria di stato con Bush, non cerca di vestirsi da Wasp, di mimetizzarsi in uno stile tranquillo e bon ton. Lei ha usato e usa il suo grande e perfetto corpo palestrato e il colore della sua pelle per fare politica.

Ursula von der Leyen, lo abbiamo visto ancora una volta al G7, è sempre in pantaloni scuri, maglia o camicia e giacca quasi sempre dello stesso modello, con l’unica civetteria dell’uso del colore. Sempre diverso, senza paura delle tinte forti. Una scelta precisa, solo all’apparenza rinunciataria perché la rende inconfondibile.

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Molto simile in questa mise alla sua mentore, la mitica cancelliera tedesca Angela Merkel. Per entrambe una sorta di dichiarazione: non ho tempo da perdere per pensare a cosa mettermi. Divertente la foto dell’incontro tra lei e Meloni. Anche von der Leyen aveva scelto il rosa chiaro per la sua giacca. Forse entrambe hanno pensato che potesse essere rassicurante per quel consesso maschile armarsi di quell’edulcorato colore da femmina.

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