Ha girato 47 film, lunghi. 150 titoli, dicono, sommando corti e mediometraggi. In 60 anni. Ma il 48esimo film, forse il primo, il più importante, è stato lui. Un’icona di stile per generazioni di cinefili radical. Difficile dire involontariamente, non era il tipo.

Nelle immagini degli anni Sessanta porta gli occhiali scuri anche al chiuso, la giacca stretta, la camicia chiusa, i capelli che si diradano appena, non bello, il mento sfuggente, la barba spesso ispida, un’eleganza calvinista, minimale, mai compromessa.

Ultra radical super chic, quando ancora la cosa voleva dire poco e niente. Capace di sfidare il peso di un’immagine non semplice da portarsi dietro, il rischio dell’essere Godard, solenne geniale meraviglioso rompicoglioni. God-art lo battezzò il critico George Sadoul (tutti nomi che oggi gli studenti del Dams leggono sui libri, ma un tempo sono esistiti davvero).

Mai pensionato

A man poses street as he watches on a smartphone the French-Swiss filmmaker Jean-Luc Godard speaking on the subject "pictures in the days of the Coronavirus" with Lionel Baier, head of the Cinema department of L'Ecole cantonale d'art de Lausanne, ECAL, during a live broadcast on the Instagram account of the art school in Lausanne, Switzerland, Tuesday, April 7, 2020. The new coronavirus causes mild or moderate symptoms for most people, but for some, especially older adults and people with existing health problems, it can cause more severe illness or death. (Jean-Christophe Bott/Keystone via AP)

La cosa più bella è che aveva saputo rimanere così fino all’ultimo. Il suo ultimo film presentato a Cannes nel 2018, Le livre d’image, era cinema senza attori, senza sceneggiatura, senza nient’altro che le immagini del Cinema vecchio e nuovo, il suo sguardo e la voce. Incerta, invecchiata, ovvio. Rifletteva sull’orientalismo, sulla violenza, sull’«incontro tra la violenza delle immagini e la calma della rappresentazione».

Ma era ancora il film di un regista vivo che nella successiva conferenza stampa dallo schermo di un telefonino via Facetime (non era ancora il tempo di Zoom) continuava a prendersela con Spielberg e tutto il cinema che odiava, senza sconti al tempo, all’età, al vogliamoci bene. “Le cinema de papa”.

Mai andato in pensione Jean-Luc Godard: il suo cinema era lui. Le parole affilate, antipatiche, che emanavano disprezzo totale per la banalità e  – quando c’era – la televisione, il ridicolo narcisismo del mettersi in scena, motore ciao azione.

«Per guardare il cinema si alza la testa», recita uno dei suoi infiniti aforismi, «per guardare la tv, la testa si abbassa».  Erano parole narcisiste al cubo le sue, naturalmente. Rese inconfondibili da un piccolo difetto di pronuncia e dal doppio difetto dell’intelligenza esibita in aforismi e citazioni di citazioni che rimbalzano tra i suoi film, gli scritti, le interviste come in un vorticoso monologo ininterrotto. «L’etica è l’estetica dell’avvenire», citando Lenin in Le petit soldat. «La fotografia è verità. Il film è – questa è facile – la verità 24 volte al secondo».

L’aspirazione più grande

La scena della conferenza stampa dello scrittore rumeno Pavlesco (il regista Melville) sulla terrazza di Orly in A bout de souffle, è un pezzo di bravura in questo film infinito. «Qual è la sua più grande aspirazione nella vita?», domanda Jean Seberg nella parte di una giornalista americana (bellissima, un’icona del Novecento, bisogna aggiungerlo?). Risposta, nell’assoluta gloria cinefila di un montaggio cubista: «Diventare immortale, e poi morire». Titolo perfetto per ogni necrologio.

E chi aveva visto mai niente del genere? I tagli in asse, la cinepresa a mano, i personaggi che parlano in macchina. I cartelli. I piani sequenza. Il fuori sincrono.  La confusione totale tra il cinema altissimo e quello bassissimo. Gesti presi dalla grande storia del cinema e dalla minuta volgare dei pidocchietti di periferia: Dziga Vertov e i B-Movie americani. Il montaggio come arte. Lo smontaggio come distrazione di un operatore, di un proiezionista, occhi sempre aperti  sulla macchina-cinema usata al massimo delle sue possibilità. Ai critici di suoi primi film citava sempre Brecht: «Il realismo non consiste in come sono le cose vere, ma in come sono veramente». 

Mettersi in gioco

1965 AP

E pensare che all’esordio anni Sessanta infila uno dopo l’altro A bout de souffle, Le petit soldati, Un femme est un femme. Un noir con Belmondo, un film politico sulla guerra in Algeria, una commedia musicale con le canzoni di Michel Legrand, il massimo. Tutto decostruito, cubista, i dialoghi scritti sul set ogni mattina, le scene inventate  sulle strade, nelle macchine in movimento, nelle case.

Ma la cosa che forse resta più nascosta dietro tante immagini è questa: Godard è stato capace di mettere in gioco tutto e sempre. Dietro la veemenza politica e artistica c’è spesso il suo amore per l’amore, così francese, così anni Sessanta, la forza e lo smarrimento dei maschi di quell’epoca. Le sue “muse” (brutta parola), Anna Karina e Anna Wiazemsky, scrivono assieme a lui i film e glieli distruggono, almeno fino a La cinese, capolavoro di cinema pop-politico-innamorato. Anna Karina aveva tentato il suicidio per lui, durante la lavorazione del meraviglioso Vivre sa vie.

Quando lo stesso Godard, in un impeto di maoismo autodistruttivo viene in Italia a girare il western rivoluzionario Vento dell’est con Gian Maria Volonté, Anna Wiazemsky lo lascia e stavolta lui tenta il suicidio. Frammenti di una biografia generazionale-politica che ci raccontano qualcosa, forse, anche della maniera in cui ha deciso di terminare la vita.

Prima e dopo

AP1966

La vita è il cinema. Una volta si poteva dire. E la morte?  Il cinema al lavoro (questo però è Cocteau). Godard comincia a scrivere sui Cahiers de Cinema negli anni Cinquanta quando si litigava a sangue per un carrello, un grandangolo, uno zoom fuori posto. Brechtiano. Rosselliniano. Negli anni Sessanta smonta il cinema in nome del cinema, negli anni Settanta lo distrugge in nome della rivoluzione. Cinema materialista, che rompe l’incanto. È questo il suo incanto. Il cinema di papà è perfetto eterno avversario di una delle grandi avanguardie del Novecento: la nouvelle vague. Come dada, il cubismo, il punk. Con Susan Sontag ripetiamo tranquillamente che Godard è come Schoenberg, come Picasso. C'è un prima e c'è un dopo.

Oggi cinema ne è rimasto poco, adesso è tutto normale. In cinque minuti qualunque passati su youtube o davanti alla tv ci sono almeno dieci-quindici cose che lasciarono a bocca aperta gli spettatori di Godard. Ci mancherà. Ci restano i suoi film. E la vita.

© Riproduzione riservata