I fotografi ci son rimasti male più di tutti. Se i presidenti delle federazioni sportive non hanno più limiti ai mandati, se dopo il terzo potranno candidarsi e farsi eleggere per un quarto, un quinto, un sesto incarico, chissà per quanti ancora, il lavoro dei clic e dei flash finirà, non serviranno scatti nuovi, potranno bastare le pose conservate negli album e negli archivi, nei secoli dei secoli, amen.

Cambiano solo i modelli dei telefonini che hanno tra le mani, sì, certo, qualche capello grigio, un filo di barba, ma loro restano sempre loro, schierati in grisaglia sotto il dipinto di Luigi Montanarini, Apoteosi del fascismo, gigantesco, svelato e riscoperto tempo fa alla parete del salone d’onore del palazzo che ospita il Coni.

Quando a marzo del 2021 si è unita al gruppo Antonella Granata, i presidentissimi si sono guardati in faccia smarriti, gli occhi spalancati, annusarono una minaccia, l’inizio di chissà quale rivoluzione. Era la prima donna alla guida di una federazione in Italia, lo squash, la prima di sempre con l’eccezione di Antonella Dallari, una breve esperienza nel 2012 agli sport equestri.

Gli audaci non si son fatti prendere dal panico, resistiamo, passerà. Hanno sbarrato le finestre, rafforzato la sicurezza, stretto i bulloni alle sedie, i barbari alle porte sono stati respinti, meno male. Un emendamento a un decreto nelle commissioni affari costituzionali e lavoro della Camera ha dato qualche settimana fa il via libera, togliete i maniglioni, uscite dai bunker, il tetto dei tre mandati non c’è più, nessuno verrà a portare l’aria nuova in quelle stanze. 

Il film di Petri

Palazzo H. La sede del Coni si chiama così. Sul serio. Con la lettera muta. Deve significare qualcosa. Bisogna divertirsi a immaginarselo come una specie di Zafer, il posto claustrofobico dove Elio Petri faceva arrivare in Todo Modo i capi politici della Dc, e poi industriali, banchieri, manager – distopico lo chiameremmo oggi, negli anni Settanta non si diceva ancora – un luogo a metà tra una catacomba e un rifugio, perfetto per tenere gli esercizi spirituali del film, adattato dal romanzo di Leonardo Sciascia, ora pro nobis, un rito di espiazione dai peccati e dai reati. 

Ci sono le faide, le correnti, i veleni. Il Corriere della sera lo definì «una specie di psicodramma sulla classe dirigente, nel clima di mistero in cui viviamo. Non è un film realistico, ma ha uno svolgimento metaforico e astratto, tra la satira e il dramma».

A guardarlo da vicino, non può essere vero neppure il set dello sport italiano. Ci sono capi che stanno al loro posto da trent’anni. Luciano Rossi, per esempio. Nel mese di novembre del 2020, nel pieno della seconda ondata Covid, venne eletto nuovo presidente della federazione tiro a volo.

O meglio: di nuovo. Raccolse il 95.5 percento dei voti all’assemblea di Fiumicino. La carica è sua dal 1993. Quando pagavamo ancora con la lira e dall’altra parte dell’Adriatico c’era la Jugoslavia. Luciano Rossi si riunisce con i suoi colleghi e vive una specie di sensazione Fiuggi, si toglie gli anni di dosso, gli pare che il tempo non sia passato mai.

Alla federazione degli sport rotellistici nel 1993 c’era Sabatino Aracu, non un omonimo dell’attuale, è proprio lui, l’originale, altro uomo che s’affeziona agli oggetti, soprattutto le poltrone, e più di tutti è un sentimentale Gianni Petrucci, al basket. Negli sparuti passaggi in cui ha lasciato la carica, è andato a sedersi sul trono papale del Coni, poi è tornato a casa. Ogni tanto promette di non ricandidarsi, si lascia indurre in tentazione ma non ci casca, come un personaggio di Petri misticamente dice «vediamo dove mi porterà il Signore». 

Quando uscì Todo Modo, Petri rivelò a Lietta Tornabuoni sul Corriere di aver avuto molte difficoltà nel corso della preparazione, «perché il film racconta gli esercizi spirituali di potenti democristiani che di spirituale non hanno più nulla. Non è un film anticattolico – disse – l'accusatore della classe dirigente è un prete. È a suo modo un film religioso: denuncia la totale scissione che esiste tra le idee professate e i comportamenti politici praticati». 

Di accusatori del sistema sportivo, in giro non se ne incontrano tanti. Mauro Berruto, ex allenatore della nazionale di pallavolo, oggi deputato del Pd, in parlamento ha detto: «Sono personalmente disgustato. Il meccanismo elettorale delle federazioni sportive, il sistema elettivo più medievale del paese, rilancia». In effetti, quando sei rieletto dopo 27 anni per la sesta volta come Vincenzo Iaconianni alla motonautica, con percentuali superiori al 90 percento, qualche domanda bisognerebbe farsela, a proposito dei meccanismi di autoconservazione, oppure sul consenso generato come conseguenza del potere.

Petrucci la chiama invidia. Il governo giallo-verde provò con Spadafora e Giorgetti a introdurre un limite ai mandati, Paolo Barelli al nuoto convocò l’assemblea prima che potesse scattare la norma. Rieletto. Angelo Binaghi al tennis s’affrettò a cooptare nel board Chiara Appendino, all’epoca sindaca di Torino, con un ruolo da vicepresidente e col pretesto che nella sua città sarebbe arrivato il Masters di fine anno. Un’amicizia a cinque stelle poteva fare comodo.

Franco Chimenti, 84 anni, resiste al golf: «Non riusciranno a mandarci via», dice dalla sua barricata. In effetti. Impugnano uno scudo termico e lo chiamano democrazia. Qualche giorno fa, in un’intervista a La Stampa, Petrucci ha replicato a una domanda: «In Parlamento c’è stato un ricambio?». Certo che sì, bisognerebbe fargli notare. Sono in cinque i superstiti del ‘93, cinque su seicento. La percentuale a palazzo H è imbattibile. 

I gattopardi

Gli uomini di Petri incardinati nel potere non sono riusciti a scalzare nell’immaginario collettivo quelli passati sotto la penna di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, poi davanti alla macchina da presa di Luchino Visconti, i gattopardi diventati anzi l’antonomasia di chi sorride ai cambiamenti, si adatta, finge, ma per piegarli, per cucirli come un abito nuovo su sé stessi.

Al vertice della piramide di un mondo che muta per non mutare mai siede il sovrano Giovanni Malagò, nei giorni della morsa Spadafora-Giorgetti terrorizzato a sua volta dalla prospettiva di non poter continuare a governare. Si batté con la forza della disperazione. Scrisse al comitato olimpico internazionale («Punite l’Italia») per contrastare la riforma.

Per mesi e mesi, giocò con la politica un suo poderoso bluff, facendo credere che il Cio ci avrebbe mandato ai Giochi di Tokyo senza l’inno e senza la bandiera, come se a Palazzo Chigi ci fosse stato Lukashenko. Infine si scoprì che dai suoi uffici erano intervenuti sulla bozza del documento in scrittura presso il gabinetto di Spadafora.

Ammise: «Quale è il problema? Se non lo fa il Coni chi lo dovrebbe fare? Anzi, se non lo avessi fatto, avrei tradito il mio mandato». Anche Petri in Todo Modo aveva un capo che chiamava M. e nel quale era palese un richiamo a Moro, due anni prima della sua fine tragica. Il capo M. dello sport ha navigato i corridoi della politica per avere un ministro dello sport, ora la controriforma del ministro Abodi alla riforma del ministro Spadafora che correggeva la riforma Giorgetti, ha salvato tutti i gattopardi. Non Malagò, perché il Coni è un ente pubblico e il tetto rimane. Ma c’è tempo. Direbbe Petrucci da Zafer che le vie del Signore sono infinite. 

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